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In questa casa non si butta niente

di Anna Capasso

Definita anche sindrome da accumulo compulsivo, la disposofobia è caratterizzata dalla difficoltà di disfarsi dei propri oggetti, anche se inservibili e di scarso valore. Anna Lo Bue, neuropsichiatra infantile dell’Istituto di farmacologia traslazionale del Cnr, ne descrive sintomi e possibili cause. E spiega come uscirne 

Armadi carichi di vecchi vestiti, mucchi disordinati di oggetti, come giornali, libri, scartoffie varie, sacchetti vuoti ovunque, perfino rifiuti. Chi soffre di disposofobia, disturbo da accumulo compulsivo, in inglese Hoarding disorder (Hd), conserva tutto e vive in case sommerse dal caos. Una persistente difficoltà a disfarsi o separarsi dai propri oggetti, indipendentemente dal loro valore. “Si ritiene che la disposofobia colpisca circa il 2-3% delle persone e che i sintomi spesso compaiano nel corso dell’adolescenza. All’inizio il disturbo può essere lieve, ma con l’avanzare dell’età può gradualmente peggiorare”, spiega Anna Lo Bue, neuropsichiatra infantile dell’Istituto di farmacologia traslazionale (Ifc) del Cnr di Palermo. “A differenza dei collezionisti, il soggetto disposofobico accumula in maniera disorganizzata con le motivazioni più varie: perché pensa che quel tale oggetto potrà essergli necessario in futuro, perché rappresenta il ricordo di una persona cara o di un animale domestico o semplicemente perché non vuole ‘sprecare'”.

Il disturbo, anche se relativamente raro, inizia a essere più conosciuto, grazie anche ad alcuni programmi televisivi. Gli studi accademici più recenti evidenziano diversi fattori di rischio che possono portare all’insorgenza di questa patologia, anche genetici. “I pazienti che accumulano sono caratterizzati da tratti della personalità legati al perfezionismo e all’indecisione. Ma anche un trauma o un evento stressante (positivo o negativo) può risultare un fattore di rischio”, continua la ricercatrice. “Dagli studi risulta che oltre il 50% di adulti con problemi di accaparramento ne riferisce almeno uno avvenuto prima dell’insorgenza dei sintomi. In alcuni casi i comportamenti di accaparramento erano significativamente associati ad avversità infantili auto-riferite, ad esempio rapine in casa o abusi fisici”.

Chi soffre di disposofobia vive una serie di complicazioni. “Difficoltà a svolgere semplici attività quotidiane, come cucinare o pulire, e le condizioni antigieniche rappresentano un rischio per la salute”, prosegue Lo Bue. “Inoltre, il soggetto tende a isolarsi, evita di ospitare persone, crea spesso conflitti con i propri famigliari, fino a ritrovandosi in una condizione di abbandono”.

Le persone affette, però, in genere non riconoscono questo impatto negativo e ritengono di non aver bisogno di cure. “I due principali interventi per la gestione della disposofobia sono la psicoterapia e il trattamento farmacologico”, conclude Lo Bue. “La terapia cognitivo-comportamentale è la forma più comune per aiutare i pazienti. Nel percorso occorre correggere le abilità deficitarie di organizzazione dei propri beni, per aiutare il paziente a decidere quali scartare. Inoltre, con l’aiuto dello specialista, è importante capire il motivo per cui ci si sente in dovere di accumulare. Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, con gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, una classe di antidepressivi, si è avuto un certo successo nella riduzione dei sintomi”.

[Almanacco della Scienza N.10, 2022]

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