Nel 1500 si sviluppò in Italia una scrittura femminile d’imitazione petrarchesca, plasmata in altre parole sulle rime del poeta aretino.
Un vento buono soffiava sul “pianeta donna” per una mutata considerazione della società nei suoi confronti, anche in considerazione del fatto di una avvenuta metamorfosi culturale, di una visione della vita e della realtà che spazia dalle arti alle lettere, dalle scienze al costume, inaugurate dall’Umanesimo e dal Rinascimento.
Tra le scrittrici di questa nuova era ci fu la poetessa Isabella di Morra. (1520 circa –1546), dalla conoscenza letteraria dotta e raffinata, amante della scrittura e della poesia.
Ecco un sonetto scritto come testamento al padre lontano, sonetto in cui Isabella abbandona il suo dolore alle acque del Sinni, elemento naturale scelto quale messaggero del suo stato di solitudine e sofferenza.
«Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fin amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.
Dilli come, morendo, disacerbo
l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice a le tue onde serbo.
Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m’adduci, o fiera stella,
come d’ogni mio ben son cassa e priva!),
inqueta l’onde con crudel procella
e di’: – Me accreber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella».
Isolata, confinata in una terra che poco sentiva accogliente, per la natura impervia e selvaggia, Isabella scriveva versi di dolore e di sofferenza:
“Ecco ch’un’altra volta, o valle inferna
o fiume alpestre, o ruinati sassi
o spiriti ignudi di virtute e cassi
Udrete il pianto e la mia doglia eterna”.
Nacque e morì, a soli 26 anni, a Favale San Cataldo, un piccolo borgo feudale medioevale, situato tra Lucania e Calabria, (oggi Valsinni, in provincia di Matera), da Giovan Michele Di Morra e da Luisa Brancaccio.
Il feudo di Favale dagli inizi del ‘400 era di proprietà della famiglia Sanseverino, principi di Salerno e Grandi di Spagna. La famiglia dei Sanseverino aveva subinfeudato Favale San Cataldo a Giovan Michele padre di Isabella.
Uomo assai colto, nel feudo di Favale (un feudo fedelissimo al re di Francia Francesco I, avverso al monarca spagnolo Carlo V”), il padre di Isabella era titolare della baronia civile, aveva cioè giurisdizione delle prime cause civili, mentre quelle di carattere criminale e più importanti erano di spettanza del principe di Salerno, Ferrante di Sanseverino.
A Isabella venne dato un nome assonante a quello della nonna paterna, Elisabetta. Il padre volle nobilitare la scelta del nome, ispirandosi alla regina di Spagna Isabella di Castiglia; Isabella era anche il nome della mecenate e collezionista d’arte italiana Isabella D’Este, moglie del marchese di Mantova Francesco Gonzaga, a cui anche l’Ariosto aveva fatto omaggio, citando nel suo poema “Orlando furioso” Isabella, amata da Zerbino, che muore volontariamente per non cadere in mano a Rodomonte.
Nell’ottava ventinovesima del canto XXIX , Isabella viene infatti evocata da Dio con parole dolorose; l’Isabella ariostesca pare quasi prefigurazione della vita infelice della Morra stessa.
Per l’avvenir vo’ che ciascuna ch’aggia
Il nome tuo, sia di sublime ingegno,
E sia bella, gentil, cortese e saggia,
E di vera onestade arrivi al segno:
Onde materia agli scrittori caggia
Di celebrare il nome inclito e degno;
Tal che Parnasso, Pindo ed Elicone
Sempre Issabella, Issabella risuone.
Nel 1528 Michele Morra, filofrancese, abbandonò la figlia a causa delle dispute tra Francia e Spagna. Ciò significò peggiorare la sua posizione nel feudo per la contrapposizione a Ferrante di Sanseverino. Questa la storia “Giovanni Michele fu costretto a emigrare prima a Roma, poi a Parigi nel 1528, dopo la sconfitta delle truppe di Francesco I di Francia di cui era alleato e la vittoria di Carlo V d’Asburgo per il possesso del Regno di Napoli… Il feudo di Favale, di cui erano titolari i Morra fin dall’epoca normanna, fu alienato per alcuni anni al re di Spagna. Il crimine commesso da Giovanni Michele poté essere perdonato tramite il pagamento di un’ammenda ma lui rimase in Francia servendo nell’esercito e partecipando alla vita culturale della capitale. Dopo varie trattative legali, il territorio tornò ai Morra, e fu conferito al primogenito Marcantonio”.
Isabella idealizzerà nella sua poesia la terra di Francia, dove il fratello Scipione aveva seguito il padre e dove si affermò politicamente; vorrebbe “approdare a più felice rive” per essere valorizzata nella sua dimensione intellettuale-letteraria.
La sua esistenza, contrassegnata come detto, da solitudine e tristezza, non conobbe la frequentazione di corti e salotti letterari.
Subì la prepotenza dei fratelli, responsabili della sua segregazione nell’arroccato castello normanno. Ebbe come precettore il canonico Torquato che la istruì negli studi di Petrarca e degli autori latini.
Si dedicò agli studi letterari e alla produzione di testi poetici.
Di Isabella Morra si ebbero notizie pubbliche dal nipote Marco Antonio di Morra, figlio del fratello di Isabella, Camillo. Nel 1629 Marco pubblicò la biografia della famiglia Morra, dal titolo “Familiae nobilissimae de Morra historia”. Gran parte della storia è dedicata al nonno Giovan Michele, padre di Isabella e al ramo francese della famiglia. Di Isabella viene posta in evidenza la vita tragica e non tanto il valore poetico il cui riferimento, tra l’altro, viene inserito tra parentesi tonde, come a volere sottolineare l’irrilevanza del dato letterario compositivo rispetto alla infelice vita della donna. Sappiamo che la produzione poetica della Morra era conosciuta non solo nelle regioni confinanti a Favale ma anche in quelle lontane.
La causa della sua popolarità consistè anche nell’avere sottolineato poeticamente la sfortunata situazione di vita di una donna, la quale, soprattutto in epoche passate, era costretta a una totale sottomissione maschile.
Aveva otto anni quando il padre e il fratello secondogenito Scipione, dopo la vittoria degli spagnoli in Italia, dovettero allontanarsi da Favale e scegliere la via dell’esilio in Francia, perché reputati traditori.
Poiché appassionata di studi letterari e incline, con maestria, alla scrittura, il canonico Torquato favorì il rapporto epistolare della Morra con un nobile di origine spagnola di nome Diego Sandoval De Castro. In tal modo Isabella avrebbe potuto momentaneamente affrancarsi dalla sua infelice condizione.
Isabella intrecciò così una corrispondenza segreta con Diego Sandoval de Castro, castellano di Cosenza, poeta petrarchesco di origine spagnola e barone del vicino paese di Bollita (oggi Nova Siri).
Attraverso il pedagogo di Isabella, questa e Diego ebbero un carteggio segreto. Forse ebbero anche modo di incontrarsi in un casale della famiglia Morra, a metà strada tra Favale e Bollita. Le lettere che don Diego spedì a Isabella venivano inviate a nome della moglie di lui, Antonia Caracciolo. In nessuna delle rime della poetessa vi è testimonianza di sentimento amoroso nei confronti di Sandoval o di qualsiasi uomo.
I fratelli di Isabella, Decio, Cesare e Fabio, pensarono a una relazione tra i due e decisero di porre fine alla vita della sorella del pedagogo e di Sandoval.
Vorrei a questo punto entrare nel vivo delle composizioni poetiche di Isabella, introducendo il lettore in quella che definirei il gioiello letterario della poetessa: le sue Rime, reputate «un’autentica autobiografia in versi», scritte negli anni della sua segregazione. Si tratta di un Canzoniere composto di dieci sonetti e tre canzoni, vere e proprie liriche, scritte sulla scia del “ Rerum vulgarium fragmenta” di Petrarca, preso a modello nel 500 nelle sue linee compositive, anche attraverso una codificazione delle stesse.
Quelle della Morra rispettano il canone del sonetto composto di due quartine e due terzine in endecasillabi a rima alternata, secondo il metro: ABAB/ABAB/CDC/DCD
Si sa che gli scritti di Isabella furono portati alla luce dagli ufficiali del viceré di Napoli e “messi agli atti” dopo l’uccisione di Diego Sandoval de Castro durante l’indagine che ne seguì.
Il canto di apertura di questo stupefacente Canzoniere funge da proemio; esso infatti ci presenta in poche righe quanto sarà poi sviluppato nelle rime che seguiranno. In luogo dell’invocazione alla Musa, come avveniva solitamente per altri poemi classici, c’è la crudel Fortuna che non favorirà le sorti della Morra, né le risparmierà i suoi feroci strali.
I fieri assalti di crudel Fortuna
scrivo, piangendo la mia verde etate,
me che ‘n si vili ed orride contrate
spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,
vo procacciando con le Muse amate,
e spero ritrovar qualche pietate
malgrado de la cieca aspra importuna;
e, col favor de le sacrate Dive,
se non col corpo, almen con l’alma sciolta,
esser in pregio a più felici rive.
Questa spoglia, dove or mi trovo involta,
forse tale alto re nel mondo vive,
che ‘n saldi marmi la terrà sepolta.
Nella prima quartina, già nel primo verso, si avvertono risonanze del Decamerone del Boccaccio. Nella decima novella della decima giornata il cui tema concerne le azioni liberali e magnificenti, si parla infatti Fortuna avversa (“Il fiero assalto della nimica fortuna”) in riferimento a Griselda che sosteneva con forza d’animo, obbedienza e gentilezza la spietatezza del marito.
“ Giannucole, che creder non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l’aveva i panni che spogliati s’avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che recatigliele ed ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si diede, sì come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nimica fortuna”.
Riferimenti al Canzoniere di Petrarca, tema del pianto
Verso due della prima quartina: “Scrivo, piangendo la mia verde etate” .
Qui il tema del pianto trova l’eco nel Petrarca e precisamente il primo riferimento è al sonetto 365 del “Canzoniere”. “I’ vo piangendo i miei passati tempi”
(Canzoniere, 365)
I’ vo piangendo i miei passati tempi
i quai posi in amar cosa mortale,
senza levarmi a volo, abbiend’io l’ale,
per dar forse di me non bassi exempi.
E ancora nel sonetto 356 in riferimento a Laura, parte ormai del celeste regno, Petrarca farà dire ad Amore:
Responde: – Quanto ‘l ciel et io possiamo,
e i buon’ consigli, e ‘l conversar honesto,
tutto fu in lei, di che noi Morte à privi.
Forma par non fu mai dal dí ch’Adamo
aperse li occhi in prima; et basti or questo:
piangendo i’ ‘l dico, et tu piangendo scrivi. –
Morra: “scrivo, piangendo la mia verde etate”
Petrarca (Canzoniere, 315)
Tutta la mia fiorita et verde etade
passava, e ’ntepidir sentia già ’l foco
ch’arse il mio core, et era giunto al loco
ove scende la vita ch’al fin cade.
(Canzoniere 216)
Tutto ‘l dí piango; et poi la notte, quando
prendon riposo i miseri mortali,
trovomi in pianto, et raddoppiansi i mali:
cosí spendo ‘l mio tempo lagrimando.
Al verso quattro della seconda quartina, nell’espressione della Morra malgrado de la cieca aspra importuna possiamo intercettare sonorità dell’“Altercazione”, poema di argomento filosofico, in sei capitoli a rima incatenata (ABA, BCB, CDC) che Lorenzo de’ Medici scriveva dopo la morte del padre. In quest’opera si disputa della felicità, in forma di dialogo tra Lorenzo e un pastore di nome Alfeo.
Nel capitolo II, e per tutti i successivi, il filosofo Marsilio Ficino espone la sua dottrina sul Sommo Bene (Summo Bono), come Bellezza, Verità e Perfezione divina, indispensabili per liberare l’uomo dalle passioni terrene.
(Altercazione, Capitolo II versi 155-160)
Onde veggiam che invan si pone il core
dove sanza ragion Fortuna impera,
poi che ognuna di queste e manca e muore.
Questi apparenti ben da mane a sera
ci toglie e dá lei cieca ed importuna,
né saggio alcuno il pensier ferma o spera,
dove ha potenzia la crudel Fortuna. —
Al verso uno della seconda terzina: Questa spoglia, dove or mi trovo involta
Nell’immagine della spoglia ritroviamo il Petrarca (Canzoniere 265)
Aspro core et selvaggio, et cruda voglia
in dolce, humile, angelica figura,
se l’impreso rigor gran tempo dura,
avran di me poco honorata spoglia…
Così pure in riferimento ai saldi marmi, verso tre della seconda terzina: che ‘n saldi marmi la terrà sepolta
ritroviamo il Petrarca (Canzoniere 265)
Vivo sol di speranza, rimembrando
che poco humor già per continua prova
consumar vidi marmi et pietre salde.
Al verso due della seconda terzina: forse tale alto re nel mondo vive il riferimento e al re di Francia Francesco I, il sonetto in gran parte è permeato di malinconia e consapevolezza del proprio destino che la negativa Fortuna le riserva. I luoghi impervi dove visse Isabella sono così descritti da Benedetto Croce:
Il piccolo abitato è aggrappato e come conficcato nelle falde del ripido colle, che il castello sovrasta: il castello, anch’esso scosceso per tre lati e inaccessibile […] Dal lato verso borea, che è quello dell’ingresso, si vede dai suoi spalti svolgersi a valle in lungo nastro il Sinni, che ha qui il suo corso più stretto, e qui si gonfia torbido e impetuoso, e il suo mormorio accompagna l’unica vista dei monti tra i quali è rinserrato, tutti nereggianti di elci e di querce. Quella vista aveva davanti agli occhi immutabile, quel mormorio udiva incessante la giovane Isabella […].
Oltre ad avvertire la natura circostante avversa, la poetessa sentiva di crescere “in un ambiente chiuso e retrivo, in mezzo a gente rozza, ignorante e miope, dalla mentalità ristretta”, da cui senz’altro si stagliava per cultura e sensibilità.
A un’attenta lettura dei versi, nell’incipit del sonetto scorgiamo i temi della crudel Fortuna e del pianto.
Essi convivono in un dualismo, una presa d’atto, colto anche come proiezione di una condizione creata da un ambiente culturale – la realtà oggettiva circostante – e filtrato dolorosamente nell’anima infelice – il suo acuto sofferto sentire.
I due nomi chiamati in causa (la Fortuna e il pianto) appaiono dunque personificazione di un oggetto esterno- la Fortuna malevola – e di un’emozione intima e profonda introspettiva- il pianto generato dal dolore.
A contribuire a un destino contrario e già segnato è una terra fatta di vili ed orride contrate, in cui Isabella avverte di spendersi, impiegando energie di studio e creative, terra dove non si riconosce in quanto non riconosciuta nella sua finezza intellettiva: spendo il mio tempo senza loda alcuna.
Ancora di scena la crudel Fortuna nella seconda quartina in cui la poetessa si abbandona alla speranza di avere una degna sepoltura in una terra che sappia apprezzarla, diversamente dalla terra che le ha dato origine.
A questo proposito è forte il richiamo al componimento di un poeta posteriore alla Morra, poeta di fine settecento, Ugo Foscolo, che in “A Zacinto” della terra dove è nato usa l’appellativo sacre sponde, che lo hanno accolto, cullato, abbracciato; ciò a differenza della poetessa che definisce il luogo natio vil cuna
Foscolo, A Zacinto
“Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque…”
Spera, Isabella, che sia la poesia, le Muse amate, a favorirle il privilegio di sepoltura e di ricordo perenne e spera anche di ritrovare un po’ di pietà in chi l’accoglierà, nonostante le pesanti incursioni, gli interventi – ciechi e severi – della malevola Fortuna nella sua esistenza.
Il pensiero di Isabella nei riguardi della morte, come condizione liberatrice per la sua vita, è volto alla sua “rinascita” in spazi più felici – almen con l’alma sciolta/essere in pregio a più felice rive.
Le felici rive richiamano il Petrarca della sua Chiare, fresche et dolci acque, (Canzoniere, 126); il riferimento è al fiume Sorga nei cui pressi il poeta si augura di trovare sepoltura perché parte dei luoghi cari a Laura.
L’auspicio finale di Isabella è quello di sperare esista un re (chiara allusione a Francesco I) che le dia sepoltura in un luogo sicuro, lontano da dispute. E qui il rimando è al senso di precarietà politica avvertita nell’instabile feudo di appartenenza, Favale San Cataldo appunto.
La Francia è simbolo anche dell’idealizzazione di una terra dove risiedevano il padre e un fratello, il vagheggiamento di una terra libera, di un ambiente colto, che avrebbe dato almeno al corpo esamine una dimensione di felicità agognata.
Nota
Nel 1652, sei anni dopo la morte di Isabella, fu portato alla luce a Venezia da Ludovico Dolce il “Canzoniere” di Isabella in una raccolta antologica.
Benedetto Croce, che compì un viaggio in Basilicata per attingere personalmente informazioni sulla vita della poetessa, nel ‘900 valorizzò la poesia di Isabella Morra.
Bibliografia
“Isabella Morra, Rime” a cura di Gianni Antonio Palumbo, Stilo editore
Francesco Petrarca “Canzoniere”
Giovanni Boccaccio “Decamerone”
Ludovico Ariosto “Orlando furioso”
Lorenzo de’ Medici “Altercazione”
Ugo Foscolo “A Zacinto”