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Il rinascimento: l’era delle poetesse. Parte Quinta

Sonetto VIII
Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fin amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.

Dilli come, morendo, disacerbo
l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro
e, con esempio, miserando e raro,
nome infelice a le tue onde serbo.

Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m’adduci, o fiera stella,
come d’ogni mio ben son cassa e priva!),

inqueta l’onde con crudel procella
e di’: – Me accreber sì, mentre fu viva,
non gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella.

Il topos del fiume che si gonfia di lacrime  (inqueta l’onde con crudel procella) lo si può ritrovare in Petrarca:

Canzoniere, 230, vv 5-8
onde e’ suol trar di lagrime tal fiume,
per accorciar del mio viver la tela,
che non pur ponte o guado o remi o vela,
ma scampar non potienmi ale né piume.

Canzoniere, 279, vv 1-11
Se lamentar augelli, o verdi fronde
mover soavemente a l’aura estiva,
o roco mormorar di lucide onde
s’ode d’una fiorita et fresca riva,

là ‘v’io seggia d’amor pensoso et scriva,
lei che ‘l ciel ne mostrò, terra n’asconde,
veggio, et odo, et intendo ch’anchor viva
di sí lontano a’ sospir’ miei risponde.

Pare sentire la voce di Laura in lontananza, voce prodotta dall’immaginazione del poeta:

«Deh, perché inanzi ‘l tempo ti consume?
– mi dice con pietate – a che pur versi
degli occhi tristi un doloroso fiume?

Isabella dice di sé e del suo nome “Infelice” la Canzoniere, 230, vv 5-8.

La memoria ci riporta alla Isabella di Ariosto. Nell’Orlando Furioso, nel Canto XXIX, Isabella muore per fedeltà al suo innamorato cavaliere Zerbino. Offre il proprio collo alla spada di Rodomonte, (preso da passione amorosa per la donna che avrebbe voluto possedere); muore decapitata, pronunciando in ultimo il nome di Zerbino.

Dio, apprezzando il sacrificio di Isabella, decise di elargire in suo ricordo, per secoli, a tutte le donne di nome Isabella le migliori virtù: ingegno sublime, bella, gentile, cortese, saggia. Sappiamo come nel proemio dell’Orlando furioso si trovi il motivo encomiastico, l’omaggio alla casa d’Este,

(Ludovico Ariosto, Orlando furioso, canto I, Ottava 3/”Proemio )
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

e pertanto come venga celebrata la stessa Isabella d’Este lungo il poema.

Nella Morra, probabilmente, la consonanza con l’immagine femminile letteraria dichiara un bisogno di riconoscimento poetico proprio in quell’atto di affidamento al fiume Torbido Sirinome infelice a le tue onde serbo e quindi possiamo riscontrare come ella trovi l’espediente formale per un recupero di quei modelli speculari.
Analogie antitetiche, in un gioco di chiaro/scuo, tra il Siri e il Sorga possono essere reperite nei versi del Petrarca.

Canzoniere, canzone numero 126 Isabella Morra Rime, Sonetto VIII
Chiare, fresche et dolci acque Torbido Siri

La Natura presa a modello classico da Isabella Morra è rappresentata dalla “valle inferna” ; mentre in Dante e per riflesso in Petrarca, essa emerge in tutto il suo trionfo; infatti sia a l’Alighieri che al poeta aretino cantano la Natura, rispettivamente attraverso  Beatrice e Laura, avvolte dai fiori.

Dante Alighieri (Purgatorio, Canto XXX , vv 28-31) Francesco Petrarca (Canzoniere, 126, vv 40-45)
così dentro una nuvola di fiori

 

che da le mani angeliche saliva

 

e ricadeva in giù dentro e di fori,

 

sovra candido vel cinta d’uliva

 

donna m’apparve, sotto verde manto

Da’ be’ rami scendea

(dolce ne la memoria)

una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;

et ella si sedea

humile in tanta gloria,

coverta già de l’amoroso nembo

Il sonetto VIII si predispone a un’rinnovata apertura dell’anima, a un affidamento: Il fiume Siri renderà noto al padre di Isabella il dolore — “il mal superbo” — in prossimità di una sensazione di fine che la poetessa avverte; or ch’io sento da presso il fin amaro, scrive la Morra. Affida un messaggio e una speranza: se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.

Si tratta di una missiva in cui ritroviamo la Fortuna avversa e le acque del fiume, queste ultime confidenti del destino della giovane donna – il fato avaro – acque che raccolgono nel nome “Isabella” il rimando alla sorte sventurata della omonima ariostesca. E’ un nome infelice e unico quello di Isabella (e, con esempio, miserando e raro), per la coincidenza delle sorti comuni tra la Morra e la sua speculare figura letteraria.

A proposito delle scelte lessicali della poetessa, possiamo ritrovare rimandi letterari nell’espressione verbale “disacerbo” a due autori.
In Dilli come, morendo, disacerbo/l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro
avvertiamo l’eco di Giovanni Boccaccio.

(Rime. Parte prima. XLII)
se zefiro omai non disacerba
il cor aspro e feroce di costei, 
più mai non spero, per cridar omei,
trovar riposo alla mia pena acerba.

e ancora avvertiamo l’eco di Petrarca

(Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta)/ XXIII, vv1,4/Nel dolce tempo de la prima etade)
Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et anchor quasi in herba
la fera voglia che per mio mal crebbe,
perché cantando il duol si disacerba…

L’immagine del padre che giungerà a la sassosa riva, (quel sassosa come riferimento alla vita aspra), ormai lei morta, raccogliendo dalle onde ingrossate del fiume, il ricordo della figlia che resta viva non tanto per i suoi occhi ma per le lacrime ormai tutt’uno con le acque del Siri i fiumi d’Isabella, riporta la memoria al Petrarca. Egli sente vicina la propria morte e spera che Laura giunga sulla sua tomba e pianga.

(Canzoniere, 126, vv 27,39/«Chiare, fresche et dolci acque»)
Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi: et, o pieta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Isabella riflette così, a quale passo la porti la mente, (a che pensar m’adduci, o fiera stella,…) nell’elaborare visioni così forti, cancellata dal mondo e svuotata di ogni essenza vitale  come d’ogni mio ben son cassa e priva!)

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