Vincenzo Bellini (1801-1835), genio musicale, fu generato e nutrito nei primi anni dalla generosa terra di Sicilia. “Ah non credea mirarti sì presto estinto o fiore”, si legge, dal libretto de “La Sonnambula” sul suo monumento sepolcrale nel duomo di Catania, e umanamente è vero, se si pensa che il compositore, rinomato anche per la sua bellezza, morì a Parigi, oltretutto in solitudine ed in circostanze misteriose, a soli 34 anni. Ma forse a poco vale che i concittadini lo abbiano riportato con gran pompa verso la fine dell’800 nella sua Patria, restituendolo alla sua terra, se egli vi giace rischiando di non essere adeguatamente ricordato e celebrato.
Fra i grandi autori d’Opera, infatti, è quello meno rappresentato, a meno di eccezioni riguardanti “Norma”, “La Sonnambula” e “I Puritani”. Il resto del suo repertorio è raramente messo in scena, definito a torto “astruso, “ripetitivo”, a tratti perfino “ingenuo”, difficile da eseguire, vocalmente improbo e
destinato comunque a vocalità ormai irreperibili sui palcoscenici del mondo.
È ingiusto e riduttivo che i teatri trascurino Bellini, che le scuole di canto lo considerino un autore quasi di nicchia, ponendolo spesso solo come traguardo pressoché irraggiungibile per i soprani più dotati, in particolare con “Casta Diva”. Quest’ultima è solo l’apice di un progetto ben più ampio, che il destino non consentì al giovane catanese di compiere. Un progetto che non conosciamo, che non conosceremo mai, ma che possiamo solo osare intuire. Bellini era tutt’altro che “ingenuo” come compositore. La sua genialità sta anche in questo modo di “porgersi”, ma c’è molto, molto altro alle spalle di ogni sua singola nota, come alle spalle di ogni suo silenzio in musica; un disegno che appare addirittura criptico e sul quale ci sarebbero da versare fiumi d’inchiostro.
Ma l’Arte non dimentica: il suddetto destino, quello dei Grandi, è di essere immortali. Ed è così che Bellini e la sua musica fanno di nuovo notizia, su internet: un giorno di settembre del 2013, si rileva un comunicato diramato da Madrid dalla Biblioteca Nazionale di Spagna, in cui si evidenzia che è stato ritrovato in quella sede un manoscritto musicale inedito del nostro autore.
Al di là della sorpresa e della gioia per l’evento, viene da chiedersi come mai ciò sia accaduto proprio in Spagna ed a quale collezionista appassionato sia appartenuto l’album del XIX secolo, illustrato da fotografie e disegni della Sicilia e di Malta, che nascondeva questo prezioso foglio. In ogni caso, gli studiosi spagnoli si fregiano oggi di una scoperta che andrà ancora studiata e valutata, ma che comunque è rilevante, soprattutto dal punto di vista musicologico e storico.
Scendendo nel particolare, si tratta di una pagina pentagrammata su cui è tracciato uno schema di sette barre e su cui sono scritte a penna le note su due righi musicali, uno in alto sulla pagina e l’altro in basso, con una didascalia a margine del foglio, che recita: “Manoscritto di Vincenzo Bellini e dei suoi fratelli Mario e Carmelo”.
La scritta laterale non è di mano dell’autore, perché figura essere come una nota di catalogazione del reperto nell’ambito di una raccolta. La presenza dei nomi dei fratelli del musicista è comunque singolare e andrà sicuramente approfondita.
Il manoscritto è collegato all’Opera “Il Pirata”, sulla cui genesi, per via dell’epistolario di Vincenzo Bellini lacunoso in questo punto, poco si sa.
L’Opera belliniana andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 27 ottobre 1827. Bellini debuttava, aveva solo ventiquattro anni e pochi credevano nella sua affermazione in un teatro di tale spicco. L’impresario Domenico Barbaja, di gran fiuto, invece, gli diede credito e gli mise al fianco il librettista ufficiale del teatro milanese, l’illustre Felice Romani (1788-1865).
Il libretto fu tratto dal mélodrame di Isidore J. S. Taylor “Bertram, ou le Pirate”, andato in scena a Parigi nel novembre 1826, a sua volta ispirato alla tragedia in cinque atti “Bertram, or The Castle of Saint-Aldobrand” di Charles Maturin (1816).
La prima dell’Opera, supportata da un cast di gran rilievo, in cui spiccavano il celebre tenore Giovanni Battista Rubini, specializzato nel registro acuto e sovracuto, nel ruolo di Gualtiero, e, nel ruolo di Imogene il soprano drammatico di agilità Henriette Méric Lalande, ebbe un successo clamoroso. Il baritono Antonio Tamburini, altrettanto celebre e rinomato interprete, li affiancava e a lui era affidata la parte di Ernesto, alla quale appartiene la suddetta traccia inedita reperita negli archivi spagnoli.
Esaminando nello specifico il prezioso documento ritrovato a Madrid, ciò che colpisce, a parte il rilevare la presenza dei picchiettati nella prima battuta del rigo in alto e il “ripensamento” o doppia opzione nella seconda, è il rigo in basso, che riporta anche le parole del libretto del Romani.
Ci troviamo al secondo atto e si tratta di “Tu m’apristi in cor ferita”(La maggiore / Fa minore / Fa maggiore), Tempo d’attacco della Scena e duetto tra Imogene (soprano) ed Ernesto (baritono), che segue immediatamente il recitativo “Arresta, ognor mi fuggi”– Allegro; precede il cantabile “Ah! lo sento: fra poco disciolta”– Larghetto (Fa maggiore); segue con il Tempo di mezzo (ripresa del tempo d’attacco) Che rechi?– Allegro moderato (Do maggiore) e prelude alla cabaletta “Ah! fuggi, spietato, l’incontro fatale”– Allegro assai (La maggiore), banco di prova, ancora una volta, delle agilità richieste al soprano protagonista.
Il manoscritto, dunque, riguarda una delle frasi musicali del baritono e precisamente la frase che reca le parole “empia madre – mal tu celi un cieco amor”, che fanno parte dell’inizio del duetto. Questi i versi completi del Romani:
(…) “Tu m’apristi in cor ferita
della tua più sanguinosa.
Empia madre, iniqua sposa
mal tu celi un cieco amor. (…)”
Dunque, non una variazione della cadenza composta sui versi del librettista per il soprano o per il tenore, come sarebbe stato più consueto, ma per il baritono, vocalità di solito non particolarmente mirata ad abbellimenti ed agilità, rispetto al tenore ed al soprano. Ma Bellini era Bellini…
Sottolineare la presenza del Tamburini (1800-1876) nel cast della prima scaligera, allora, non è cosa di marginale rilievo. Il solista romagnolo, “basso cantante” come allora si denominava, oggi genericamente definito “basso baritono”, infatti, era idolatrato da pubblico e critica per resa e tecnica vocale, per la qualità della sua voce, bruna ma agilissima, per la sua presenza scenica, nonché per il suo gradevole aspetto.
È ovvio che, trovandoselo felicemente nel cast, Bellini abbia scritto la parte di Ernesto modellandola per la sua voce. Era decisamente normale che fosse così, anzi era quasi una prassi che gli autori d’Opera, Bellini compreso, scrivessero avendo presenti dei “modelli” ben precisi; quindi la parte di Ernesto, a detta di diversi studiosi, fu scritta appositamente per la voce del Tamburini.
Questo spiega un particolare importante anche nel foglio ritrovato a Madrid: i righi musicali scritti non recano l’accompagnamento, sono solo quelli destinati al cantante e le note presentano caratteristiche che richiedono un’agilità vocale non indifferente. Variazioni delle cadenze, quindi, che la voce del grande Tamburini consentiva? Oppure variazioni per qualche altro baritono altrettanto vocalmente dotato?
Ovviamente lo studio sul manoscritto proseguirà da parte di eminenti studiosi, che sapranno dare risposte a molti interrogativi, ma il fatto che sia stata ritrovata una variazione di pugno dell’autore,
La comunicazione ufficiale dalla Spagna del ritrovamento del manoscritto afferma che la pagina ritrovata non reca variazioni di particolare rilievo rispetto alla versione “definitiva”.
Ai tempi, i cantanti avevano l’abitudine (e il vezzo) di “scegliere” le cadenze tra quelle create dal compositore, che appositamente, a volte, oltre che scriverla direttamente come prima si accennava, modificava e ri-modificava la propria musica per esaltare le doti di questo o quel cantante. Avevano anche il “difetto” di “inventarsi” le cadenze adatte alla propria vocalità e quelle dei cantanti più famosi entravano nella tradizione, venivano trascritte ed erano eseguite da altri cantanti. Proprio per tale motivo è difficile stigmatizzare come definitive determinate parti di un’esecuzione, in particolar modo quando le frasi musicali si prestino a lasciare spazio alle singole “scelte”. Esistono addirittura delle raccolte pubblicate delle cadenze più usate, create o tramandate da questo o quel cantante e a suo nome adottate da cantanti e direttori e riconosciute ancora oggi nell’esecuzione dagli addetti ai lavori.
C’è, quindi, comunque ancora molto da verificare, riguardo pure alla suddetta affermazione delle fonti spagnole, anche perché la storia di un’Opera non si basa solo sulla partitura utilizzata per la prima rappresentazione o per le immediatamente successive (già passibili di modifiche sostanziali, come il finale in questo caso), ma va inserita in un contesto ben più ampio di repliche, riprese, rappresentazioni coeve all’autore e quant’altro, sulla partitura delle quali egli poté intervenire personalmente.
Riguardo a ciò che de “Il Pirata” originale, scaligero o poco oltre, messo in scena ai nostri giorni, noi ascoltiamo e ascolteremo sui palcoscenici, non ci resta che sperare nella serietà e buona fede filologiche dei Direttori d’Orchestra, nelle doti dei cantanti e nella decisione auspicabile, d’ora in poi, di inserire nell’esecuzione, da parte di qualcuno di loro, anche le variazioni “spagnole” autografe. Gli interpreti, non più come un tempo, non hanno granché voce in capitolo in merito alle variazioni da scegliere concordemente con i direttori d’orchestra, a meno che non siano dei mostri sacri.
Per i melomani, i suggerimenti d’ascolto registrato dell’Opera, come fino ad oggi ci è stata tramandata, non sono numerosissimi, ma possono essere collocati in epoche varie, tenendo conto delle “versioni” diverse che immancabilmente si riscontrano, delle capacità dei cantanti e soprattutto degli anni in cui le registrazioni sono state eseguite.
È fondamentale, per la scelta, tenere in considerazione la propensione o meno delle preferenze dell’ascoltatore per la “tempesta” divistica degli anni ‘50, che procurò a volte tagli ed aggiunte arbitrari alle partiture, ma anche grandi esecuzioni; rivolgersi ai direttori filologicamente attendibili degli anni ‘60-‘70, incontrando però interpreti dotatissimi ma fuori ruolo per Bellini; considerare positivo o meno l’esclusivismo direttoriale ed interpretativo che ha rischiato di travolgere Bellini e la sua produzione operistica negli anni ‘70-‘80 e che, ad avviso di chi scrive, ne ha procurato una sorta di malcelata monopolizzazione che bene non ha fatto al grande autore catanese ed alla sua musica. In tale campo, dunque, prevalga il gusto personale di ciascuno, anche se si auspica un indirizzarsi di chi ascolta verso la ripresa di assoluto rigore che caratterizza il migliore gusto filologico dei nostri giorni e dunque anche le auspicabili registrazioni di là da venire, sempre compresa la variazione “spagnola”.
Ma allora, anche alla luce di quest’ultimo prezioso ritrovamento, viene spontaneo chiedersi quale sia davvero la partitura “definitiva” de “Il Pirata”, ovvero quella che sarebbe consigliabile eseguire a teatro e registrare.
Ad avviso di chi scrive, in questa, come in molte altre Opere, sia di Bellini che di altri autori, non esiste una “partitura definitiva”, ma diverse partiture “originali”. Su quest’onda di pensiero, non sapremo mai qual è la frase musicale del baritono prescelta dall’autore nell’inizio del duetto… ma perché non lo sapeva neanche Bellini; la musica era per lui, come per tutti i geni suoi pari, materia viva, elastica, plasmabile, soggetta a ripensamenti, tagli, abbellimenti, modifiche. Così come molte altre, opera “aperta”, dunque, anche “Il Pirata”, nei limiti dell’assoluto rispetto filologico dell’autenticità delle sue versioni. Ben venga, allora, dalla Spagna l’ennesima variazione di pugno dell’autore, che tracci l’inizio del solco di un meritato e rinnovato interesse complessivo per la produzione operistica belliniana.