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Il paradiso di Bulen Ruza

Bulen Ruza

Per le case girano nomi, un gioco,
scherzi che fanno scorrere il tempo.
Da queste parti un suono,
una modulazione.
Striscia su ogni familiare un richiamo
stagionale; sì, perché ognuno cambia
“vestito”, basta un sibilo vocale.
Si cambia l’identità e si sta al gioco.
C’è sempre un nome — ricordi l’attracco
per la barca nella laguna abbacinata
mesi orsono? Il palo di corda e d’alga…
teneva con la barca l’astenia,
le gambe ondeggianti, il sale del tuo corpo.

La gatta che ti guarda sfinita
dal suo male si è lasciata nominare.
Di tante sillabazioni ha trovato
l’origine e il suo commiato:
Bulen Ruza.
Perché, vedi, questo suono non spiega,
oltre questo tempo che tutto, tutto
vuol razionalizzare. Qui il segreto,
la meraviglia. Tutta la famiglia
si è lasciata andare, lettere su,
capovolte; per ogni membro, segni
che cose chiamano per il non verso.
in ascolto tutti pronti al richiamo;
e aspettano la giusta inclinazione
del volto, delle corde in vibrazione.
Il collo che si allunga a dire
il senso dei segni disposti in fila,
indossati a dire la propria vita.

Ricerca rara potere riuscire
a mettere fronti e luce d’anime
un gatto, un uomo, voce e oggetto, pianta,
e, perché no, muovere, far vibrare
una pietra e un cielo stellato a sera.

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Quando Bulen sarà giunta nel suo regno
troverà schiere di animali a consiglio.
Firme raccolte: la petizione
per quelli di sopra. S’implora pietà,
un po’ di tenera clemenza di qua.
Un giardino, una comune e lì
chi li liberi dal proprio male,
chi li aiuti, li traghetti all’altra riva,
grazia unita a com-passione, amore sposa
a morte, senza conflitto; procedere
piano tra un tempo e un vuoto, serrati
da fila di intelligenze angeliche
della propria specie poste ad accogliere
quelli che arriveranno in canoe per acque..
Portinai con ali, in un albergo d’oro,
a cinque stelle extra, se nella gabbia
di qua, resta residuo di bontà,
uno che traghetta, medico e mago.

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Mangia, sta male, senza più forze
si lascia lavare, acqua e sapone,
acqua che l’era in odio, oasi felice
fatamorgana oltre lo specchio.
Batte sul vetro, lei chiede aiuto;
che tu l’accompagni, stringa il suo male.
Per lei, culla le braccia; lei piuma,
capriola d’ossa, pelo che è fumo.

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Giorni infelici dentro alla cesta,
sopra un azzurro di mattonella.
Pareva il cielo lo strano alloggio:
la volta è il mobile della cucina.

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Giorgio ha provato con la magia,
diffusa, dorata, la polverina,
farmaco e stelle e più ancora
cure d’amore per Bulen che muore.

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Nella sportina, quella dei viaggi,
quella dell’ultima lotta, un giorno.
21 agosto, sala d’aspetto,
chissà che suono la voce del mago.

A pancia in su, la zampa preme
il cancelletto. Dita di angelo,
mano che è amore oltre la griglia.
Davide forse può traghettarla.

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La zappa scava, scava,: non ha sosta.
Presto, che il cielo ha perso colore.
Tu scopri quel velo dov’è avvolta.
Gli occhi son vivi, lei non è morta.

La prendi in braccio, lieve la deponi,
la terra il letto, lo scrigno che chiude
la nostalgia di chi l’ha raccolta,
sono dieci gli anni! Di chi le cambiava i nomi.

Guardi la nuvola così perfetta,
il salice, l’acqua lungo il canale.
Volti quegli occhi, che abbia luce.
Flebile raggio. Quella la direzione.

21 agosto 2007

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