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IDOMENEO al Met

Recensione di Neco Verbis © dibartolocritic

L’opera in italiano va cantata in perfetto italiano. Nella fattispecie, si parla dell’Idomeneo, “Dramma per musica in tre atti” scritto dall’abate Giambattista Varesco e musicato da Wolfgang Amadeus Mozart. Amadeus aveva venticinque anni quando scrisse Idomeneo, che  non è la sua prima opera seria in assoluto, ma la prima nella quale si riscontrano elementi di maggiore libertà formale rispetto all’opera di ideazione metastasiana.

Il genio musicista, quindi, scrisse Idomeneo su un libretto in lingua italiana, strutturato con un impianto tipico dell’opera seria italiana, con la sua tradizionale alternanza di arie e recitativi, anche se arricchiti dagli elementi di cui sopra. Dunque oggi, nel mondo della globalizzazione, quando si canta Idomeneo, anche negli USA, questa piccola, immensa Lingua Italiana va rispettata nel canto in tutta la sua ampiezza di apertura nelle vocali, in tutta la chiarezza della dizione.

Una specie di italianese, con parole mangiate e “T” che diventano “C” per via dell’accento anglosassone, quindi, non rende merito alla qualità non solo del libretto, ma dell’intera opera. Cantare Mozart impastando le parole è come cantare il Werther in francese con accento spagnolo. Non si può e non si deve. Neanche al Metropolitan Opera. Anzi, a maggior ragione nel tempio d’oltreoceano della grande Opera. Questo, purtroppo, invece, è accaduto nella messa in scena del capolavoro mozartiano al Metropolitan Opera di New York il 6 marzo 2017.

Musicalmente parlando, poi, l’intera serata è stata improntata alla lentezza dei tempi, nell’ultimo atto in particolare, dove l’azione scenica, invece, avrebbe dovuto stringersi ancor di più; questo forse allo scopo di evocare la solennità di momenti più o meno implicanti il divino. L’afflato corale, la capacità di cogliere gli insiemi nella partitura, la fusione dei colori e delle sonorità orchestrali raffinatissime, però, hanno reso comunque onore ad un grandissmo del podio come James Levine, alla guida della grandiosa Orchestra del Met.

Come prima accennato, nell’Idomeneo molti elementi risultano estranei alla tradizione dell’opera seria italiana: sono stati inseriti dall’autore cori, danze e brani orchestrali. I cori assumono talvolta un ruolo attivo, come avviene durante la scena dei naufraghi nel primo atto. Grandioso, infatti, oltre all’orchestra, anche il Coro del Met, di buona dizione italiana, retto pure dal polso di Levine.

Idomeneo nel suo complesso, però, è un osso duro, anche per i grandi come il direttore americano. Rilassarlo e rilassarsi non è concesso, renderlo ovattato e salottiero non si può, fargli sfiorare un’Arcadia ancora molto di là da venire, decisamente proibito. Per cui, la tensione che sottende l’intera opera è andata un po’ persa, forse alla ricerca di quella perfezione aerea del genio, che però rischia di far perderne di vista le radici. E in un’Opera come Idomeneo queste radici sono fortissime, più che le parti aeree, come in un albero ben piantato. Gli zeffiretti lusinghieri possono sfiorare e far fremere di delicatezza solo le fronde dell’intera opera, o si rischia di farla diventare dolciastra.

Si è ascoltato un Mozart maturo da un Levine maturo. Un Mozart maturato forse un po’ troppo più nella sinfonica che nell’opera, non solo settecentesca. La tensione che si traduce in indugio e compiacimento non rende giustizia al genio compositore. Una ricerca di lirismo che precorre i tempi è vana nell’Idomeneo. Così come la finzione in Mozart è finzione della finzione. Saper coglier questo punto fondamentale non è da tutti. Magari lo si è sfiorato in passato, ma lo si può anche perdere nel tempo…

Maturità non significa per forza perfezione, ma interiorizzazione e personalizzazione, anche. Per cui non sempre l’ascoltatore si può rispecchiare in qualcosa di talmente filtrato da essere diventato non più universale ma quasi personale. Il complessivo “effetto Levine” al Met è stato questo, nonostante l’indiscussa grandezza.

La buona riuscita di un’Opera dipende da moltissimi fattori, ma, anche dal punto di vista della direzione d’orchestra, tantissimo fa il materiale umano di cui si dispone in palcoscenico.

Dunque, come prima si accennava a proposito della dizione insufficiente, nella direzione del Maestro Levine in questa serata mozartiana a New York sono “mancate” le voci: la loro inadeguatezza ha influenzato anche la resa agogica; il dover accompagnare e sostenere cantanti dalla voce non particolarmente pregnante ha frenato non poco il Maestro nel poter esprimere in pieno tutto il Mozart che egli conosce e pratica, pur se ha splendidamente colto il lato mitologico dell’opera mozartiana; quella mitologia permeata di tanto Settecento e di genio come solo Mozart, con una partitura di straordinaria ricchezza timbrica, ha saputo fare.

Quel che si è notato riguardo alla direzione del canto è stata soprattutto una tensione mancante in generale nei recitativi e nei concertati, ma pure in alcune parti solistiche. Mancava quella “squadratura” di rigore assoluto che Mozart deve contenere e sottintendere, sotto l’apparente giocosità musicale, anche nelle parti drammatiche.

L’unica voce che spiccava su tutte era quella della splendida Nadine Sierra, Ilia. Caratterialmente determinata e forte, rispetto a certe interpetazioni edulcorate del personaggio, lontana anche dalle dolcezze insite nel canto di quella meravigliosa Ileana Cotrubas, che l’aveva preceduta nello stesso ruolo nella stessa produzione nel 1982, Nadine Sierra è stata la vera “principessa” della serata. Limpidissima la voce, proiettata alla perfezione, un canto terso, un fraseggio perfetto, la dolcezza quando necessaria, la fermezza quando è servita, splendida anche scenicamente, l’unica dalla dizione perfetta.

L’Idamante, l’amato da Ilia e da Elettra, la cui parte fu scritta originariamente per soprano castrato, oggi en travesti, di Alice Coote non possedeva una vocalità sufficientemente robusta per sostenere la parte. Oltretutto era ostacolato dalla suddetta palese difficoltà nella pronuncia italiana. Ma la Coote non ha avuto soprattutto né la autorevolezza vocale, né il colore, nè la proiezione adatti al ruolo.

Lo stesso dicasi per l’Elettra di Elza van den Heever che ha dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, come tale personaggio non debba esprimersi più con la mimica facciale che con la voce: le Furie del crudo Averno, forse, erano nei suoi occhi, ma non nella sua voce, che non aveva l’estensione e la forza, anche caratteriale, che deve contraddistinguere l’Elettra scritta da Mozart. Meglio nei cantabili, come in “Idol mio se ritroso”, ma anch’esso un po’ sfibrato pure nella direzione e inintellegibile nella dizione. Forse troppo “leggera” come voce per una Elettra che necessita di molta forza e non poca grinta, oltre che di eleganza di emissione e di fraseggio. Curate, a onor del vero, le agilità.

Il risultato complessivo è stato quello di avere in scena tre soprani dalla vocalità molto, forse troppo simile, con la differenza che la perizia della giovanissimai Sierra surclassava le colleghe ben più mature.

Debole anche l’Arbace di Gregory Schmidt, con una voce che non rispecchiava la limpidezza e il cesello delle agilità necessarie per il ruolo che fu di un Nucci, il miglior Arbace mai sentito, a suo tempo strepitoso, molto più che da baritono come ieri e oggi, checché se ne dica. Invece lo Schimdt possiede una voce debole, con un vibrato assai poco gradevole e soprattutto priva di quella autorevolezza che il confidente del re deve avere, anche vocalmente.

Per ultimo, l’Idomeneo protagonista di Matthew Polenzani ha dimostrato ottime doti sceniche, ma voce poco convincente per una parte, in cui inevitabilmente lo si metta a paragone con il Pavarotti che lo ha preceduto nella produzione. Non lo si voglia mai fare: questi paragoni non possono reggere, con nessuno e non è corretto farli, ma in pectore, la voce del Polenzani resta comunque insufficiente per ricoprire il ruolo mozartiano, che richiede cesello e non vibrato, agilità ben più pulite, acuti lanciati e non piano incerti tendenti allo stimbrato, in un tentativo di dolcezza di emissione che il personaggio non richiede, anzi! Anche qui si sono perse di vista le radici di quell’immenso albero che è l’Idomeneo, in particolare nel ben piantarsi del protagonista, anche vocalmente, non solo scenicamente.

Quanto alla produzione storica di Jan-Pierre Ponnelle, ripresa da David Kneuss, non c’è che da proseguire ad ammirarla, oggi come ieri, nella perfezione dello studio del posizionarsi dei personaggi, quasi da danza figurata, nella scelta oculata ed elegantissima dei movimenti, anche di quelli delle masse.

E in quelle scene e con quei costumi di un settecento reinventato e sontuoso dello stesso Ponnelle, illuminati dalle luci di Gil Wechsler, si sono mossi i protagonisti, alla fine applauditissimi dal pubblico. Elettra più di tutti, nonostante gli acuti stirati, e di cui evidentemente è piaciuta agli spettatori, più che negli altri interpreti, la capacità nelle agilità.

Neco Verbis © dibartolocritic

PHOTOS © Metropolitan Opera | Marti Sohl

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