Caro direttore DOSSENA,
mio fratello Gianni era nato con l’amore per la pittura. Papà non voleva assolutamente che perdesse tempo a dipingere e finire “sfasulato e puzzarse ‘e famme”, voleva che conquistasse il “posto fisso” ma lui non era d’accordo e vinse, nonostante punizioni e botte, urla di papà e lacrime e suppliche di mammà. Gli spazi di casa erano limitati, una stanza da letto per i genitori e nostra sorella, una stanza grande che di giorno funzionava da pranzo e di sera da letto per noi quattro fratelli maschi. Spesso di pomeriggio papà restava a casa e Gianni per “pittare” doveva chiudersi in bagno, che noi appropriatamente chiamavamo ‘o cesso, e seduto sul water disegnava e dipingeva. Tutti sapevamo, ovviamente tranne papà, e cercavamo quanto più possibile di trattenerci se ci scappava “un bisogno”. Era il 1948, mio padre, ingegnere, era impiegato al Genio Civile e lo stipendio era modesto. Moglie, cinque figli, affitto da pagare e tutte le altre necessità non permettevano spese voluttuarie, figuriamoci poi per l’acquisto di pennelli e pitture. Ma per far desistere mio fratello dalla sua voglia di disegnare, non ci poterono né il diniego a comprargli pennelli e tubetti di pittura né a sequestrarglieli quando glieli regalava nostro nonno. Gianni, nato geniale, ne realizzò uno con una ciocca dei suoi capelli legata ad una asticella di legno e, in quel luogo affatto confacente – che la sua passione per la pittura riusciva a trasformare nel più suggestivo “atelier du peintre” – realizzò il suo primo acquerello immortalando “nu panariello”, (cestino di vimini, tipico contenitore usato dalle massaie napoletane per tenerci gli “odori”: sedano, cipolla, aglio, pomodoro, prezzemolo, basilico). Opera unica nel suo genere, da me custodita gelosamente e donata a mia nipote, figlia di mia sorella, per le sue nozze (foto allegata caso mai qualcuno volesse ammirarla).
Raffaele Pisani
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