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Frasi fatte bene

di Paolo Squillacioti

Paolo Squillacioti, direttore dell’Istituto Opera del vocabolario italiano del Cnr, spiega perché i luoghi comuni siano tante diffusi; sia a livello colloquiale, sia in altri ambiti, per esempio quello politico o letterario. Non si tratta quindi di mere banalità

Gli esempi vanno da Aristotele a Aldo Busi. Come spiega Bice Mortara Garavelli nel suo limpido “Manuale di retorica” (Bompiani, 1988), il concetto di luogo comune è proprio dell’impianto aristotelico e in particolare della dialettica, dove si oppone al luogo proprio: si tratta di un punto di vista sulla realtà generalmente accettato, conforme alle opinioni diffuse e che i retori potevano applicare a diverse situazioni argomentative. Al contrario, i luoghi propri o specifici erano peculiari di singole discipline e generi oratori.

Il tempo e la “degenerazione” hanno provocato il mescolamento di queste due categorie ben distinte cosicché, spiegano Chaim Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca nel “Trattato dell’argomentazione”, il libro che a metà degli anni ’50 del secolo scorso ha rilanciato la retorica, “i pezzi oratori contro il lusso, la lussuria, la pigrizia ecc., ripetuti fino alla nausea nelle esercitazioni scolastiche, sono stati classificati luoghi comuni, nonostante il loro carattere assolutamente particolare”.

Questa generalizzazione dei luoghi retorici è alla base della sensazione di scontata ripetitività che certe espressioni, passate dall’ambito settoriale a quello del linguaggio diffuso, suscitano oggi. Ma se è vero, continuano i due studiosi, che “i luoghi comuni dei nostri giorni sono caratterizzati da una banalità che non esclude affatto la specificità”, non bisogna fare l’errore di sottovalutarne la funzione argomentativa: “i luoghi costituiscono un arsenale indispensabile al quale chi vuole persuadere altri dovrà per forza attingere”.

Quest’impostazione può in parte spiegare la grande quantità di frasi fatte, di argomenti triti, di parole d’ordine che caratterizza il linguaggio pubblico: per convincere occorre farsi capire e per farsi capire conviene ricorrere a un lessico che suoni familiare. Ma se è vero, come ha calcolato Tullio De Mauro, che per il 92-93% dei nostri discorsi utilizziamo le 2.000 parole di quello che lo studioso ha definito il lessico fondamentale (aggiungendo le circa 2.500 del lessico ad alto uso si arriva al 97-99% dei discorsi), è inevitabile per tutti noi incorrere in qualche luogo comune linguistico, di cui magari non si riconosce l’origine colta. Per esempio, a chi non è capitato di commentare un evento positivo imprevisto che si presume isolato con l’espressione “una rondine non fa primavera”? Si sarebbe portati ad attribuirne l’origine alla proverbiale saggezza popolare, mentre si tratta di un’immagine aristotelica fissata nell’”Etica nicomachea”, “come una rondine non fa primavera, né la fa un solo giorno di sole, così un solo giorno, o un breve spazio di tempo, non fanno felice e beato nessuno” (I, 6) traduzione di Carlo Natali, Laterza, 1999.

Tullio De Mauro

Altro esempio: si converrà che di fronte a una coppia di coniugi che, disomogenea per carattere e attitudini, conduce una vita matrimoniale armonica e durevole, commentare che “gli opposti si attraggono” equivale a cadere nel cliché più abusato e banale; ma se quel luogo comune incontra la penna di Marcel Proust può scaturirne una bella riflessione sulla vita: “l’accoppiamento degli elementi contrari è la legge della vita, il principio della fecondazione e, come si vedrà, la causa di molte sventure. Di solito, si detesta quel che ci è simile, e i nostri propri difetti, visti dal di fuori, ci esasperano”.

Una delle caratteristiche peculiari dei grandi scrittori è proprio quella di gestire i luoghi comuni linguistici e concettuali, rivitalizzandoli e facendoli sentire meno banali. “Scardinare le frasi fatte”, ha scritto Aldo Busi, “significa rinunciare alla sola bellezza possibile della vita: la sedimentazione millenaria dei clichés”. Quale che sia il giudizio sull’opera e gli atteggiamenti di Busi, non si può non riconoscergli una particolare capacità di usare l’italiano nei suoi vari registri e una notevole potenza narrativa, in particolare nei primi due romanzi “Seminario sulla gioventù” (Adelphi, 1984) e “Vita standard di un venditore provvisorio di collant” (Mondadori, 1985). Può quindi stupire proprio in uno scrittore come lui l’elogio del luogo comune appena citato, subito dopo ulteriormente specificato: “Non c’è altra vita vivibile fuori da essi, uno scrittore lo sa. Impugnare le frasi fatte del mondo significa togliergli da sotto le uniche palafitte su cui si regge”.

Personalmente sottoscrivo: il mondo si regge sui luoghi comuni, e quella di esserne immuni, di saperli sempre piegare a fini ironici, di riuscire a dominare la funzione che esercitano su di noi rischia di essere soltanto un’illusione.

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