Eleonora Firenze, talento indiscusso ed energia illimitata, è ritornata alla ribalta nei giorni scorsi con la presentazione ufficiale fatta a Palazzo Marino, Sala Franco Brigida, Comune di Milano, il 24 novembre 2014 dello spettacolo da lei diretto “Stazioni di transito”, che andrà in scena al Teatro Rosetum di Milano il 7 e 8 febbraio 2015.
Composto di due interessanti opere, diverse tanto nella composizione quanto nel periodo storico in cui furono scritte, “Stazioni di transito” è una sua ideazione e una sfida lanciata al pubblico, forse un tantino assuefatto, per non dir impigrito, nelle sue scelte di spettacoli operistici a una gamma molto limitata. L’Imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann è una delle due opere che costituiscono questo magnifico spettacolo progettato dalla simpatica regista milanese (leccese di nascita). Scritta nel campo di concentramento di Terezìn su libretto di Peter Kien, anch’egli lì detenuto (sia il compositore sia il librettista sono stati mandati alle camere a gas di Auschwitz con quasi tutti gli altri componenti del campo) quest’opera non è mai stata rappresentata a Terezìn. La prima rappresentazione avvenne ad Amsterdam nel 1975.
Eleonora, nel 2008 hai vinto il concorso nazionale per nuovi autori “Scena in corto” con un tuo spettacolo teatrale, Vita in “Gioco” . Vorresti dirci qualcosa in merito?
La coincidenza volle che, navigando sul web, mi capitò un annuncio relativo ad un concorso nazionale per nuovi autori indetto dal Teatro Nuovo di Varese, “Scena in corto” con il patrocinio di diversi enti culturali e sociali lombardi, oltre che dell’Università dell’Insubria. Decisi di mandare il mio testo con il titolo Vita in “gioco”. Dopo un paio di mesi mi arrivò una telefonata dalla direzione del concorso che mi informava della selezione del mio lavoro, insieme a quello di altri 8 autori, per la produzione di uno spettacolo da mettere in scena al Teatro Nuovo di Varese nel maggio del 2008. Fui molto felice di questo, ma subito preoccupata dalla necessità di creare in tempi brevissimi una compagnia e dare l’avvio a tutto il processo produttivo. Partii col cast coinvolgendo le attrici (Martina Galletta, Elisa Langone, Eleonora Giovanardi e Rosa Sarti) e gli attori (Federico Manfredi e Valerio Napoli) della Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Mi occupai direttamente dell’ideazione e del recupero di tutti gli elementi scenografici , se pur ridotti all’essenziale, oltre che del pagamento di tutti i componenti del cast, se pur con un low budget. Chiesi le ferie all’azienda in cui lavoravo per il periodo di prove più fitte, mentre occupai le sere e le festività per le prove iniziali. Grazie alla Scuola Paolo Grassi potei usufruire delle loro sale prove. Tra l’altro ebbi anche a disposizione un assistente di regia sempre della Scuola Paolo Grassi, ora regista di supporto alla Scala di Milano, Stefano Pintor.
Il testo è diviso in dieci scene e una chiusura in forma di danza, sulla musica di Strange I’ve seen your face before (Libertango) cantanta da Grace Jones. Sullo sfondo un pendolo scandisce il tempo con il suo movimento e il suo suono. Sul palcoscenico, i personaggi: padre, madre e figlia adolescente e suo ragazzo; due prostitute, loro vicine di casa. Ad osservarli, sul palcoscenico, sei figure con una maschera neutra, come manichini che senza espressione, ripetono gesti meccanici simultaneamente. Si tratta di una rappresentazione che ha il ritmo degli scatti fotografici su sequenze di immagini molto caratterizzate. Obiettivo è quello di restituire il percorso di cambiamento sia individuale che di relazione all’interno di una famiglia attraverso lo sguardo su alcune realtà differenti dove i valori hanno una profondità illuminante e foriera di interrogativi sul senso della propria vita e sulla qualità dei propri rapporti. Ma non solo. Si vuole anche ragionare su realtà e immagine, su realtà e finzione, su attività e passività in relazione all’ingresso e alla sopraffazione della dimensione mediatica nella nostra vita.
Questa era la sinossi: “Persone diverse che, in pochi squarci di vita quotidiana, mettono a nudo le loro fragilità e i loro desideri. Il sorriso è il mezzo che accompagna lo spettatore in questo tour famigliare e sociale, ma è un sorriso amaro. Una sorta di reality grottesco, dove ci sono i personaggi, con la loro storia e il loro percorso verso un cambiamento, verso una nuova identità, ma c’è anche un pubblico, sul palcoscenico, che li guarda. Così gli spettatori, in platea, si vedono in uno strano specchio, in cui improvvisamente si manifesta una nuova realtà, quella mediatica, con cui confrontarsi e riflettere. Il tempo intanto passa per chi lo vuol far passare e si ferma per chi lo vuole vivere”.
Su questo testo ho poi fatto un’operazione particolare nel 2011, trasformandolo in un libretto d’opera in rima, con settenari ed endecasillabi. Ho chiesto ad un giovane compositore inglese se avesse avuto piacere di comporre una musica per realizzare una piccola opera buffa in dieci scene su questo testo. Il compositore accettò. Si tratta di David William Jackson e l’opera si chiama Silvia. Andrà in scena al Teatro Rosetum di Milano nel prossimo giugno 2015.
Sì Mina Mezzadri è stata la nostra prima regista. In quegli anni, mi ero appena laureata in Scienze dei beni culturali e stavo leggendo un libro scoperto per caso andando in cerca di notizie di Gordon Craig, grandissimo scenografo del Novecento: La prima regista. Edith Craig, fra rivoluzione della scena e cultura delle donne. Questo libro, scritto da Roberta Gandolfi, parlava di Edith Craig appunto, sorella di Gordon, ma meno conosciuta e ricordata. Lo studio della Gandolfi metteva in evidenza le importanti novità introdotte da Edith Craig nella produzione teatrale nei primi anni del Novecento. Non entro nel merito, lasciando ai lettori il piacere di scoprire questa grande anticipatrice della capacità femminile in un ruolo, oltre che creativo, direttivo. La mia curiosità si spostò sulla realtà italiana nel mondo della regia e volli approfondire la figura della nostra prima regista, Mina Mezzadri appunto. Mi sarebbe molto piaciuto scrivere di lei e del suo lavoro. Riuscii miracolosamente a trovare un contatto per chiederle un appuntamento nella sua abitazione a Brescia. Fu un bellissimo incontro dove chiesi a Mina se fosse disponibile ai numerosi incontri necessari per raccogliere la sua esperienza e scriverne un libro. Le preparai una prima impostazione dei capitoli addirittura già con i titoli. Per un anno e mezzo ci incontrammo nei fine settimana. Registravo gli incontri. Lei mi diede moltissimi recapiti dei suoi attori e collaboratori, molto materiale tra recensioni, disegni, bozzetti di scena e fotografie. Oltre lei incontrai diversi suoi attori e attrici, gli scenografi, tra cui Enrico Job, le sue amicizie più care, tra cui Lina Wertmuller. A tutti chiesi di raccontarmi la loro esperienza con Mina. Interviste che compongono la terza parte del libro. Nella prima si parla della prima fase della vita di Mina Mezzadri, quella più personale e intima. Nella seconda invece si affrontano tutte le sue regie, con il racconto delle sue intenzioni e una panoramica sulla critica teatrale delle varie testate giornalistiche italiane ed europee.
Parte integrante del volume sono quattro sezioni fotografiche a loro volta suddivise tra riferimenti alla vita personale e a quella professionale. Fotografie da me selezionate e digitalizzate. La grave malattia di Mina la portò via nell’agosto del 2008. Lei poté vedere solo la prima bozza della prima parte del libro. Non aveva più voglia di parlare di sé. Il dolore la cambiò, ma il periodo trascorso con lei lo ricordo con moltissimo piacere. Nonostante l’opinione di molte persone che la consideravano troppo radicale io mi ci ero invece affezionata. Quando si fidava di una persona si apriva ed era capace di farsi voler bene. Impossibile non volergliene.
Il libro è stato presentato al Ridotto del Teatro Grande di Brescia e al Castello Sforzesco di Milano. Presenti importanti rappresentanti del mondo della cultura, come i professori docenti di storia del teatro Sisto Dalla Palma e Paolo Bosisio, della società come l’Assessore alla cultura del Comune di Milano Massimiliano Finazzer Flory o l’Onorevole Sandro Fontana. Rappresentanti dell’arte come Franco Sangermano, stupendo attore che lavorò con lei in diverse importanti spettacoli di Strindberg e Renato Borsoni, attore e scenografo bresciano, suo primario collaboratore già dai tempi della Loggetta. Ma per assaporare un percorso così magico bisogna leggere la sua storia, merita. Il testo è in vendita nelle migliori librerie a cominciare da Feltrinelli o su ordinazione. Ha raccolto successo ed è nelle più importanti biblioteche nazionali oltre che nelle università. Ho voluto evidenziare il fatto che Mina Mezzadri è stata la prima esponente femminile nell’ambito della nascente regia italiana. Regista che aveva inoltre come caratteristica fondamentale la sperimentazione sia di nuovi linguaggi teatrali, sia la volontà di rileggere i testi classici e moderni alla luce del confronto con la contemporaneità, abbattendo il conformismo e sfidando, con la provocazione, mai gratuita, perbenismo, ipocrisia, preconcetti e stereotipi. Anche drammaturga, i suoi testi hanno suscitato molto scalpore. Uno per tutti: “L’obbedienza non è più una virtù” per cui fu accusata di vilipendio delle Forze Armate e istigazione all’obiezione di coscienza. Il suo particolare carattere, la personalità mai disposta al compromesso e mai interessata al successo di per se stesso, hanno fatto sì che Mina Mezzadri non abbia registrato altrettanta notorietà di altri suoi colleghi e soprattutto non abbia occupato ruoli nel teatro che avrebbe sicuramente meritato e svolto con altrettanta competenza. Era una donna libera. Parlando dei suoi allievi mi disse un giorno: “Spero di non vederli integrarsi mai, spero di morire prima”.
Dal tuo curriculum si può dedurre che sei una persona interessata a vari aspetti dello spettacolo. Ti senti attratta allo stesso modo a tutte queste sfaccettature del teatro o ne preferisci una in particolare?
Sono molto attratta e incuriosita da tutte le forme di espressione dell’uomo e della vita. Così, dato che il teatro spesso ne racchiude molte in un unico evento, che sia di prosa o lirico, lì mi dirigo con la voglia di esprimermi e di vedere realizzata l’opera e gli artisti. Ma devo dire che ogni espressione d’arte mi cattura totalmente, mi affascina e mi stimola alla produzione a mia volta certo a livello puramente amatoriale. Naturalmente ho da fare i conti con le mie competenze o meglio non competenze su alcuni campi, non abbattendomi però, perché in fondo un problema o una carenza può anche trasformarsi in un’opportunità, soprattutto quando il desiderio è troppo forte per rimanere ingabbiato dalle catene della paura del giudizio degli altri. I tentativi nelle varie discipline sono molti. Dalla produzione di brevi testi teatrali, all’ideazione di scenografie, dalla pittura alla scultura, più ancora alla produzione di oggetti sulla base del ritrovamento di materiali che stimolano la mia fantasia.
Qualche mese fa ho realizzato un oggetto che potrebbe essere considerato di arte contemporanea in legno e oro a 22 k. su una base di un materiale sperimentale non ancora in commercio. L’ho chiamato “Life”. Mi piacerebbe esporlo in occasione del prossimo spettacolo “Stazioni di transito” in una piccola bacheca del teatro. Non è in vendita.
Nel corso dei tuoi vari studi ( Eleonora Firenze ha conseguito tre lauree) hai avuto l’opportunità d’incontrare molti registi importanti. Qual è il regista che più ti ha colpito e perché?
La più significativa in termini di profondità di pensiero, di coerenza e di capacità di sintesi e di messinscena per me è stata Mina Mezzadri. Ho seguito alcune prove dal vivo di importanti registi, quali, ad esempio, Daniele Abbado alla Scala di Milano o Damiano Michieletto alla Fenice di Venezia. Ho molto apprezzato la qualità della loro gestione registica, sebbene molto diversa tra i due. Ho poi potuto sentire le esperienze registiche di Gianfranco De Bosio, un grande della regia lirica italiana. Uno dei miei docenti, insieme a Quirino Principe, fondamentale musicologo italiano. Un aspetto per me importante è soprattutto rilevare le differenze e apprezzare le analogie fra i diversi registi. Questo mi permette di arrivare all’essenza della gestione registica, pur lasciando aperte le possibilità espressive.
Per il tuo Master hai preparato un progetto di regia e scenografia, completo di modello in scala della scena, dell’opera lirica di Arnold Schoenberg Moses und Aron, che è stato poi presentato dal tuo docente di regia, il Maestro Gianfranco De Bosio, all’Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona. Hai perseguito in altre occasioni questo tuo interesse per la scenografia oppure è stata un’esperienza prettamente d’apprendimento?
La scenografia è strettamente legata all’idea registica, spesso è difficilissimo riuscire a dividere i ruoli. Il regista alla fine sconfina nel ruolo di scenografo, molto più spesso che non viceversa, a meno che non si parli di scenografi specialissimi, i grandi, uno per tutti per la mia esperienza Enrico Job.
L’accoppiamento di un’opera di Monteverdi (Il lamento di Arianna) con una di Viktor Ullmann (L’Imperatore di Atlantide) nel tuo spettacolo “Stazioni di Transito”è decisamente impegnativo per te e stimolante per il pubblico. Vorresti parlare un po’ delle ragioni di questa tua scelta?
Partendo da un lamento individuale, quello di Arianna, abbandonata da Teseo, con la musica di Claudio Monteverdi, arrivando ad un lamento collettivo, quello degli artisti di Terezin – campo di concentramento voluto dai nazisti come immagine ingannevole verso la comunità internazionale della loro politica nella questione ebraica – con la musica di Viktor Ullmann.
La mia Arianna è islamica e porta il velo. Ho immaginato una scena occupata da una moltitudine di volti, montati su steli metallici, le opere sono di Giorgio Guidi. Questi rappresentano quegli uomini che lasciano il loro Paese per disperazione e che affrontano il Mare Mediterraneo per raggiungere il nostro, con la speranza di una vita migliore. Questi volti sempre più perdono la loro identità. Questi uomini lasciano le loro donne, che rimangono per la maggioranza sole e vedove. Quelle che riescono a raggiungere i propri uomini si trovano in una realtà così diversa. I loro paesaggi sono lontani. La necessità di integrarsi combatte con quella di rimanere attaccate alle proprie origini e questi veli non sanno se rimanere sulle loro teste o se volare via. Gli uomini che raggiungono l’Italia non trovano quello che avevano sperato, ma campi di accoglienza disumani, campi di lavoro in cui vengono sfruttati e trattati come bestie, periferie urbane dove sono isolati, delinquenza che li coinvolge, politici che ne sfruttano i bisogni. Così non siamo tanto lontani dai campi di concentramento come pensiero. Uomini raggruppati, isolati, non rispettati, senza identità.
Lo spettacolo si conclude con una breve ripresa de Il Lamento di Arianna, interpretato però da un controtenore, anziché da un soprano. Per rappresentare ancora una volta i cambiamenti, lo smarrimento, la ricerca di un approdo, questa Arianna entrerà in un’opera di Davide Dall’Osso, una scultura che rappresenta una donna, opera realizzata con una fusione di policarbonato, quindi scolpita. Ancora una volta il rimando è alle Metamorfosi di Ovidio, dove le passioni hanno sempre avuto come esito un cambiamento, una trasformazione, ma in un animale o in una roccia o in un albero. Come a dire che per tutto c’è un prezzo da pagare.
Per questo spettacolo, hai anche curato i costumi. Ti sei attenuta ad una scelta legata a una rappresentazione storica oppure ad una stilizzazione artistica?
Ho voluto lavorare soprattutto sui contrasti. Ho immaginato quindi una scenografia surreale dove gli oggetti sono deformati e fasciati, mostrando protuberanze improbabili e colori allusivi ad un parco di divertimenti per ciò che riguarda le scene in cui è presente l’Imperatore di Atlantide, per vendicare e restituire a lui quel ruolo che voleva fosse degli artisti di Terezin. I costumi per differenza sono invece realistici, divise militari originali. L’effetto è quello di una situazione appunto surreale dove il messaggio passa attraverso l’interazione tra gli attori e le scene stesse.
Che differenza hai trovato nel dirigere queste due opere, così tanto distanti nel tempo e nella loro concezione? Difficoltà?
Più che trovare difficoltà ho trovato il piacere di apprezzare le differenze e di evidenziarle. L’importante per me è sottolineare la progressione, i cambiamenti, l’evoluzione della musica e delle situazioni individuali e collettive/sociali. Queste due opere me lo permettono.