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Cellule staminali? Sempre pronte

di Alessia Cosseddu (Almanacco della Scienza, Febbraio 2022)

Con la loro capacità sia di formare nuove cellule adulte, sia di auto-rinnovarsi, ovvero “di ricominciare da zero”, le cellule staminali rappresentano una risorsa fondamentale per il corretto funzionamento dei tessuti e degli organi di un individuo sano nel corso della vita. Uno studio coordinato da Chiara Mozzetta dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del Cnr spiega come sfruttare a fini terapeutici la capacità di indirizzare tali cellule verso un destino piuttosto che un altro, per riparare un tessuto danneggiato o malato

Le cellule staminali sono in grado di intraprendere diversi destini cellulari e quindi di dare origine ai diversi tipi di cellule (differenziazione). Rappresentano la riserva naturale del nostro organismo, avendo la capacità sia di formare nuove cellule adulte, sia di auto-rinnovarsi: “È come se il corpo umano avesse a disposizione delle scorte dalle quali poter ripartire e ricominciare a formare nuove cellule nel momento in cui è necessario”, spiega Chiara Mozzetta, ricercatrice dell’Istituto di biologia e patologia molecolari (Ibpm) del Cnr. “È questa capacità di ricominciare da zero che rende le staminali una risorsa fondamentale per il corretto funzionamento dei tessuti e degli organi di un individuo sano nel corso della vita, mentre molte patologie degenerative sono associate alla loro incapacità di rigenerare il tessuto in cui si trovano. Ricerche recenti, ad esempio, hanno messo in evidenza l’incapacità delle staminali di auto-rinnovarsi e differenziare in cellule mature tra i motivi per cui i tessuti vanno incontro a invecchiamento. Anche per questo capire cosa blocca questa capacità rappresenta una delle sfide più ambiziose nel campo della medicina rigenerativa e sarà fondamentale per giungere a un invecchiamento sano”.

Al di là del loro ruolo chiave nel mantenere il corretto funzionamento dei tessuti, le cellule staminali sono al centro di un numero sempre crescente di studi, perché proprio per la loro capacità di essere indirizzate verso un destino piuttosto che un altro, possono essere sfruttate al fine di riparare un tessuto danneggiato o malato. In quest’ottica si inserisce lo studio pubblicato su “Science Advances” dal gruppo di ricerca coordinato da Chiara Mozzetta. “Abbiamo individuato un meccanismo molecolare e cellulare che potrebbe essere sfruttato per evitare la degenerazione del tessuto muscolare, sia in condizioni fisiologiche che nel caso in cui il muscolo sia affetto da patologie genetiche degenerative, quali ad esempio la distrofia muscolare”.

Il team di ricerca si è concentrato su una famiglia di cellule note con l’acronimo FAP, ovvero cellule progenitrici di cellule fibrotiche e di adipociti. “Si tratta di cellule che in condizione fisiologiche stimolano la rigenerazione dei muscoli scheletrici, ma che in un ambiente patologico o in un muscolo invecchiato possono invece favorire il deposito di grasso e tessuto cicatriziale che, pian piano, sostituisce il tessuto muscolare”, continua la ricercatrice. “Oggi sappiamo che queste cellule sono necessarie per sostenere la rigenerazione muscolare, in contesti fisiologici o patologici: rilasciano infatti fattori paracrini (fattori rilasciati da una cellula ma che agiscono su una cellula diversa), che a loro volta stimolano l’attività delle staminali muscolari. Queste cellule hanno però una doppia valenza: il loro destino è infatti anche di trasformarsi in cellule fibrotiche o in cellule adipose, con un processo che viene accentuato nella degenerazione muscolare. Le nostre ricerche hanno messo alla luce un meccanismo molecolare che può essere sfruttato per far ricominciare le FAP ad agire come stimolatori di rigenerazione cellulare, anziché come produttori di tessuto cicatriziale”.

Nello specifico, i ricercatori hanno visto che, quando le FAP producono tessuto fibrotico e adiposo nel loro nucleo, i geni che favoriscono la rigenerazione cellulare sono relegati alla periferia del  nucleo, un ambiente generalmente deputato a reprimere i geni che vi si trovano. Il focus dello studio è stato quindi individuare gli enzimi che tengono confinate queste regioni cellulari, capendo così come liberarle da questa “repressione” e far loro seguire il percorso rigenerativo. “Abbiamo rivelato in che modo è possibile cambiare il destino di queste cellule, riuscendo a spingerle a formare nuovo tessuto muscolare, bloccando la loro capacità di generare cellule fibrotiche e adipose”, conclude Mozzetta. “Sapevamo da studi precedenti che le FAP sono capaci di acquisire diverse identità a seconda dell’ambiente in cui si vengono a trovare e in questo lavoro abbiamo capito come riconvertirle in cellule in grado di partecipare alla rigenerazione muscolare, anziché alla degenerazione”.

Lo studio potrebbe aprire la strada a un approccio di tipo farmacologico a patologie come la distrofia muscolare di Duchenne, in cui le FAP contribuiscono alla degenerazione muscolare.


Fonte: Chiara Mozzetta, Istituto di biologia e patologia molecolari (Cnr-Ibpm)

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