Racconto di Bruno Pegoretti
La sveglia suonò alle cinque e dieci: due ore prima dell’alba.
Terenzio Belli si alzò prontamente e corse in bagno per assolvere ai normali rituali mattutini. Lavato, sbarbato e pettinato, si vestì in fretta: il completo blu, come al solito, camicia bianca, sostituita, raramente da una camicia a righine azzurre, e cravatta discreta, regimental, tono su tono. Indossò infine un loden grigio, corredato da una sciarpa in cachemire, anch’essa grigia e, con la vecchia cartella di cuoio sotto il braccio, scese le scale in fretta, inforcò la bici e corse alla stazione, poco distante. Durante il breve tragitto il freddo di fine novembre gli pungeva il viso: cercò di ripararsi alla meglio avvoltolandosi la sciarpa attorno al collo. Giunto alla stazione incatenò la bicicletta nel vicino parcheggio custodito.
Si precipitò ai treni e raggiunse il suo, al binario tredici ovest. Salì e, fortunato, trovò un posto libero: un miracolo, su quel regionale stipato di pendolari. Il treno, R4250, partì in orario. ‘Doppia fortuna’, pensò Terenzio Belli nell’aprire la cartella e prendere il libro che ne era riposto.
Quel giorno avrebbe visitato un piccolo paese della bassa dove, paradossalmente, non si era mai recato, distante appena ottantasette chilometri dalla sua città.
È opportuno dire che a Terenzio Belli, da otto anni a questa parte, e precisamente dal giorno successivo al funerale della madre ─ il padre era morto improvvisamente quando lui aveva appena compiuto quindici anni ─ gli si era incuneata l’abitudine, per qualche arcana bizzarria del cervello di enigmatica decifrazione razionale, di prendere, sul far del sorgere del sole e, più sovente ancor prima, un treno, ogni mattina, per rientrare a casa, salvo qualche eccezionale occasione, la sera tardi, se non a notte inoltrata.
Aveva, ormai otto anni addietro, fatto stampare un biglietto da visita su una costosa carta tirata a mano color avorio, sulla quale fece apporre, in rilievografia, in carattere corsivo inglese, suscettibile di critica per l’eccessivo svolazzare: Terenzio Belli, seguito, a mo’ di qualifica: Viaggiatore.
Tornato a casa, come s’è detto, talvolta a notte fonda, prendeva la carta geografica e sceglieva la località che avrebbe visitato il giorno successivo. In Internet digitava e stampava il biglietto.
Inutile precisare che Terenzio Belli era ricco. La mamma gli aveva lasciato diversi appartamenti in centro, più l’abitazione nella quale alloggiava: duecento metri quadri abbondanti dei quali ne usava sì e no una quarantina.
La vecchia Tata Luigia badava a tutto, così, al ritorno a casa, trovava sempre qualcosa di buono da riscaldare. Cenava in maniera distratta, pensando al viaggio dell’indomani. Tata Luigia puliva, lavava la biancheria, rifaceva il letto e all’occorrenza ricuciva un bottone o rammendava con perizia d’altri tempi un invisibile strappo su una giacca, che solo lei intuiva. Va da sé che cucinava in maniera meravigliosa, che lui, per disattenzione, trovava normale, se non ordinaria.
Terenzio Belli era nato in una mattina di sole nel febbraio di quarantadue anni prima.
Si trovava sul treno, rannicchiato al suo posto, col libro in mano. Non dava confidenza ad alcuno, ma se qualcuno gli rivolgeva la parola, solitamente delle banalità che si dicono in treno, estraeva dalla tasca interna della giacca un biglietto da visita e lo porgeva alla persona: Terenzio Belli – Viaggiatore – . Poi inventava che doveva scrivere una relazione importante e che purtroppo ‘e mi scuso tanto’, preferiva stare solo e seguire i dettami dei suoi pensieri.
Era trascorsa da poco un’ora che il treno, dopo infinite fermate, rallentò e, sobbalzando più volte, tossendo, quasi a riprendere forza, si fermò definitivamente.
Nessuno si stupì: i regionali, si sa, devono dare la precedenza ai treni più veloci. Soltanto passato un quarto d’ora e oltre, i passeggeri, bloccati, cominciarono a lamentarsi, finché si affacciò all’imbocco della carrozza il bigliettaio che annunciò, scusandosi a nome delle Ferrovie, di un guasto improvviso e che sarebbe stato impossibile proseguire. Fortunatamente, puntualizzò, di lì a 300 metri, era disponibile un pullman che li avrebbe portati a destinazione. Tutti scesero, chi imprecando, chi rassegnato e, con borse e bagagli, raggiunsero il pullman, che non si trovava a 300 metri, bensì ad almeno a un chilometro.
Terenzio Belli si guardò attorno: erano appena passate le sette, era freddo e cominciava a farsi luce. Scorse un lungo viale, mascherato dalla nebbia, e quattro case. Le altre, se ce n’erano, stavano rintanate nel biancore opaco della bruma. Fu in quel momento che prese la decisione che gli avrebbe cambiato la vita: decise di fermarsi là.
Il pullman stava riscaldando il motore, mentre Terenzio Belli s’inoltrava, con un coraggio a lui inusitato, lungo un viale infinito.
Tentò di camminare rilassato, seppure scosso da un fastidioso tremito d’ansia. S’inventò di procedere beatamente. Il freddo s’intrufolava fastidioso tra le asole dei vestiti. Il fitto della nebbia lasciava indovinare appena, ai lati della strada, due file parallele di platani nudi.
Fantasmi.
Nel silenzio imbarazzante della prima mattina di un novembre malinconicamente esausto, bianco e impenetrabile, procedette, con la percezione di scivolare sulla linea sdrucciola dell’avventatezza. E in quella sua intima segretezza, impossibile da dipanare, distratta appena dal raro rumore smorzato di un’automobile, Terenzio Belli notò, dapprima indistinta, poi confusa ed infine reale, avvicinarsi una figura femminile.
Nell’incrociarsi, lei commentò: “ Lei non è di queste parti.”
Lui scosse il capo. Era una ragazza di forse 25 anni o poco più, con le guance rosse di freddo. I lineamenti delicati del volto le donavano un sorriso intatto. Indossava un cappottone troppo largo, di foggia maschile, slacciato, un maglione color polvere e un paio di pantaloni di fustagno, ‘completamente fuori luogo su di lei’, lui pensò. Un grembiule bianco, lungo oltre le ginocchia, le copriva i fianchi: i profili erano ricamati, come ricamate erano le iniziali rosse, apposte sopra la grande tasca centrale: E. F.
Lui le osservò e lei s’avvide dell’interesse dell’uomo: “Non ci badi, sono le iniziali di mia nonna: Si chiamava Ermelinda. Il mio nome è Ondina e abito laggiù”, e indicò un punto bianco nella nebbia, invisibile.
Ondina reggeva nelle mani due larghi canestri di vimini, piatti e coperti da teli di cotone bianco. Sollevò la stoffa di uno dei due recipienti e disse:
“Sono babà mignon al rum. Li porto ogni mattina al Bar Centrale. Ne prenda uno, la prego. Riscaldano.”
Terenzio Belli, con la delicatezza che gli fu possibile, ne raccolse uno e se lo accostò alla bocca.
“Sono davvero buoni”. E ringraziò. “Sono squisiti”.
”Non faccia complimenti, la prego, ne prenda un altro. Riscaldano”, ripeté. Lui accettò l’invito e ringraziò di nuovo.
S’informò dove sarebbe arrivato se avesse proseguito.
“Da nessuna parte”, rispose ridendo Ondina, “ci sono ancora tre o quattro case e poi c’è la campagna, che di questa stagione è solo una distesa di terra nera”.
Pronunciò le ultime parole corrugando la fronte, come se il rimpianto d’una perduta nostalgia le attraversasse la mente. O almeno così parve a lui.
Si salutarono e la ragazza venne presto risucchiata dalla nebbia, ma prima che sparisse del tutto, lui, con le mani a scudo sulla bocca, le gridò:
”Si allacci il cappotto” e, arrischiandosi a chiamarla per nome, aggiunse “signorina Ondina, fa freddo”.
Ma lei era troppo distante per sentire, oppure la nebbia, oltre alle persone, si mangia anche le parole.
Terenzio Belli, in verità, avrebbe desiderato tornare indietro con lei, scambiare due chiacchiere e, chissà, forse anche pranzare assieme, ma la timidezza lo paralizzò, al punto che restò immobile fino a quando fu sicuro che lei fosse abbastanza distante. Solo allora, lentamente, ritornò sui suoi passi, da dove era venuto.
Intanto che si avvicinava al centro del microscopico borgo, pensava da quanto tempo non aveva conosciuto, né forse attaccato discorso con una ragazza.
O meglio, capitava di scambiare due parole con qualche donna, negli scompartimenti dei treni, ma sempre controvoglia, almeno da parte sua. Anzi, sovente pensava che gli sarebbe piaciuto viaggiare da solo, su un treno tutto suo, col libro in mano e il conduttore al suo servizio, vestito con una elegante livrea militare.
E basta.
Gli piacque immaginare Ondina perduta nella nebbia e camminarci dentro, danzando morbidamente, nel silenzio religioso dell’autunno quasi passato.
Camminò per una buona mezz’ora, stupendosi di avere coperto all’andata tanta distanza, e raggiunse il Bar Centrale, attorniato da sei case, quattro sul lato del bar e due dall’altra parte della strada. La nebbia si stava diradando, scoprendo un cielo spossato e triste.
Va detto, a questo punto, che a Terenzio Belli piaceva entrare nei bar, attendendo lì, di frequente, l’ora del pranzo, sbirciando i giornali locali e soprattutto cercando di carpire i discorsi della gente. Ordinava un Chinotto San Pellegrino, “l’unica cosa bevibile al mondo, oltre il caffè”, come era uso pensare, si sedeva quieto quieto e origliava. Era il suo modo di stare nel mondo e, a modo suo, parteciparvi.
Il Bar Centrale si stava lentamente animando. Alcune persone anziane parlavano a voce alta e occupavano due tavoli.
Lui, quel giorno, oltre al Chinotto San Pellegrino, non si lasciò sfuggire due babà al rum che Ondina aveva consegnato. Ora la immaginava mentre apriva la porta di casa e raggiungeva la sua stanza, ma, arrivato a questo punto, si perdeva: Ondina leggeva, pensava, si pettinava, piangeva…? Non era più immaginazione, ma fantasticheria. Forse assurdità.
Entrò una coppia giovane che ordinò due bomboloni e due cappuccini. La buona sorte volle che si sedettero al tavolo vicino a quello di lui. Terenzio Belli acuì immediatamente l’orecchio, spostando di un nulla la sedia per avvicinarsi meglio al tavolo della coppia. Intuì, poiché discutevano sommessamente, che lei non era d’accordo su una decisione presa dal compagno: cose di lavoro. Finirono col questionare con maggior vigore, gesticolando con le mani e dimenticando il cappuccino, ora irrimediabilmente freddo. Terenzio Belli, seppur le loro voci si fossero fatte più alte, capiva e non capiva. Si accavallavano l’un l’altra, facevano dei nomi, si accusavano di qualcosa che pareva serio.
Se ne andarono, scuri in volto, e lui riuscì ad intendere distintamente solo l’ultima frase del ragazzo:
“No! Ho detto no! Il prossimo anno le ortensie non ce le voglio su quel cazzo di terrazzo!”
Terenzio Belli pensò che è vero, le ortensie possono non piacere.
Comunque non gli piacque lui e il suo modo villano di fare.
Entrarono nel bar alcuni avventori solitari: “ Un caffè…, un cappuccino…”
Lui, con la scusa di spostarsi in un tavolo più vicino agli anziani, ordinò un altro Chinotto San Pellegrino.
“Lei non è di queste parti” chiese il barista. Lui gli consegnò il biglietto da visita: Terenzio Belli – Viaggiatore -.
Si sedette vicino al tavolo degli anziani e ascoltò:
“Io vado da Balboni, è un bravo dottore: mi controlla sempre la pressione.”
“Lo sappiamo che ce l’hai alta, Anteo”, commentarono quasi in coro gli altri.
“A me ‘sto governo non mi dispiace: almeno fa le cose. Gli altri si grattavano le palle”.
“Sei un coglione, Simonino. Tutti farabutti, anche questi: dal primo all’ultimo”.
“Lo sapete che mia figlia si è fidanzata?”
“Beata lei! Il fidanzato, invece, col suocero che si ritrova…” E tutti a ridere.
Lui ascoltò con attenzione ogni discorso, che passava di palo in frasca.
Si sentiva appagato, dato che partecipava alle loro chiacchere, confuse e incasinate. E si sentiva consapevole che c’era dentro anche lui, in quei discorsi da niente. Avrebbe voluto dire tante cose sul governo, avrebbe voluto complimentarsi con il padre la cui figlia si era fidanzata, e avrebbe voluto consigliare ad Anteo, quello dalla pressione alta, che il piatto di affettati misti che si stava gustando di prima mattina, era un po’ troppo. Ritenne, a suo modo, s’intende, di aver contribuito al loro conversare, e di avere perfino dato qualche dritta. L’essere nel mondo, per lui, era restarne sospeso e osservare dall’alto, come un angelo dalle ali mezzo spennacchiate: si librava maldestramente, capiva ma non poteva parlare, avrebbe voluto presentarsi, ma preferiva restare invisibile per, alla fine, uscire dalla porta.
Tanto, nessuno se n’accorgeva.
Indugiò, prima di andarsene dal bar. Sul giornale finse di rileggere notizie già lette e fu indeciso se ordinare una schiacciata con prosciutto e mozzarella. Girellò su e giù, cincischiando e perdendo tempo. Stabilì, una volta per tutte, controllata l’ora, le 11 e 35, di chiedere la direzione per una trattoria. Il barista, che evidentemente aveva terminato il turno, era stato sostituito da una ragazza giovane con un vistoso tatuaggio sulla mano e un brillantino infilato in una narice. Chiese a lei per una trattoria. La ragazza lo squadrò e disse, senza particolare interesse: “Lei non è di queste parti”.
Lui, automaticamente e senza particolare interesse le porse il biglietto da visita: Terenzio Belli – Viaggiatore -. Lei lo lesse, disse ‘OK’ e, senza particolare interesse lo appoggiò vicino alla cassa.
“Una trattoria… Una trattoria… Una trattoria carina, a prezzi bassi… si trova alla seconda a sinistra: ‘Da Caronte’”. Lui ringraziò e, nel momento in cui lo faceva, sapeva che ringraziava la giovane coppia, gli anziani caciaroni, la barista tatuata e il collega che l’aveva preceduta e, sopra tutti, Ondina e i suoi deliziosi babà.
S’era fatto mezzogiorno quando raggiunse ‘Da Caronte, Cucina casalinga’. Entrò: appena due, tre tavoli occupati. Troppo presto, pensò. Si accomodò vicino a due signori che attendevano il primo. Un litro della casa, già mezzo consumato, stava al centro della tovaglia a quadretti.
Ordinò un Chinotto San Pellegrino e lesse il menù. Intanto seguiva i discorsi dei due signori:
”No, non è vero che non mi piace la Teresa, è che certe volte ha dei modi che mi fanno cagare”, diceva il più giovane dei due.
“Lascia stare, è una bella scopata, lasciatelo dire da chi se ne intende”. E il più anziano rise. La conversazione andò avanti così per un po’, vivacemente rifinita, va precisato, con descrizioni fin troppo dettagliate di particolari anatomici della Teresa e delle sue preferenze sessuali.
“Ti fa morire, te lo giuro”, disse il più anziano, un uomo sovrappeso e pelato. Poi la conversazione virò improvvisamente, forse perché arrivarono due abbondanti porzioni di gnocchi alla sorrentina. I due iniziarono a conversare di edilizia, della crisi, di case, di storie inerenti le costruzioni, di cui sicuramente erano rappresentanti.
“Io alla prossima riunione glielo dico, al Mambrini: o qua cambia qualcosa, o sono cazzi per tutti”.
Mentre si alzavano per andare a pagare, il più giovane disse:
“Giuro, il prossimo anno me ne vado in Sardegna”.
“Là sì che c’è da far del bene!”, commentò l’altro.
Terenzio Belli stava apprezzando una discreta tagliatella al ragù, quando entrò una signora elegante. Appese il cappotto e si sedette a un tavolo, discretamente riposto verso un angolo della sala, soffusamente illuminato da una finestra. Portava svariati anelli alle dita e, sul bavero del tailleur bordeaux, uno spillone appariscente, nobilitato da pietre che certo non erano paccottiglia. Ordinò solo un piatto di verdure miste e un quartino di vino bianco frizzante.
Terenzio Belli tentò d’intuire perché una signora tanto distinta, padrona d’una bellezza affatto svanita, si trovasse là, sola, ‘Da Caronte, Cucina casalinga‘. Fantasticò che fosse vedova, o tradita dal marito, o lontana dai figli che l’avevano abbandonata, lasciandola così, come una cosa, a piluccare due verdurine scotte, ‘Da Caronte, Cucina casalinga’.
Perso nelle sue divagazioni, non s’accorse che la signora, alzatasi dal tavolo, gli stava venendo incontro.
“Lei non è di queste parti”.
Lui fece no con la testa, le sorrise e le porse il biglietto da visita: Terenzio Belli – Viaggiatore -.
“E che tipo di viaggi fa?”, chiese curiosa la signora. Lui disegnò nell’aria col braccio una specie di cerchio, che nelle sue intenzioni voleva dire ‘un po’ qua, un po’ là’, ma che la signora, dalla faccia stranita che fece, non capì. Osservò solo:
“Dev’essere interessante il suo lavoro. Chissà quanto mondo ha visto”. Lui assentì col capo.
Rimasero in silenzio per un po’, una di fronte all’altro, finché lei disse: “Le piacerebbe se le facessi il ritratto?”
Terenzio Belli restò muto. Avrebbe potuto prevedere mille domande ed altrettante considerazioni, ma quella mai. Fu la signora a sciogliere lo sguardo attonito di lui.
“Insegnavo arte, in una città qui vicino. Ora sono in pensione. “Allora?”, continuò impaziente, “lo vuole il ritratto, signor Terenzio? Gratis, s’intende”.
Lui finì l’ultimo sorso di Chinotto San Pellegrino e rispose sicuro, (o almeno finse):
“Sì, mi piacerebbe”.
“Pensi il caso”, continuò la signora, “abito proprio qui di fronte, attraversata la strada”, e aggiunse sottovoce: “D’altronde qua tutti abitano proprio qui di fronte, attraversata la strada”. E rise da sola.
Lui si permise d’offrirle quel poco che aveva mangiato, uscirono, attraversarono la strada, raggiunsero una casa a tre piani e dopo due rampe di scale arrivarono all’abitazione di lei. Su una targhetta d’ottone ossidato stava impresso: Isolina Tamburini.
Lei lo fece accomodare in una delle due stanze che occupavano l’appartamento. L’altra era soffocata da un minuscolo cucinino. Altre due porte chiuse s’affacciavano sulla sala: il bagno e la camera da letto, pensò. La stanza appariva ampia e luminosa, con le pareti completamente, ma completamente coperte di ritratti di uomini, donne, bambini, cani e gatti, grandi come un foglio A3, fissati alle pareti con piccoli chiodini. Alcuni erano un po’ sbilenchi, altri coprivano in parte il ritratto che stava sotto.
“Si metta comodo, naturale” disse lei mentre prendeva posto dietro a un grande, vecchio tavolo di legno, interamente ingombro di decine e decine di scatole di latta di conserva di pomodoro, aperte e ancora etichettate, piene di matite colorate, divise per barattolo a seconda del colore: in un barattolo tutte le tonalità di verde, in un altro quelle di rosso, e così via. E tutti i barattoli erano di Conserva di Pomodoro Rustica Cirio.
La signora prese da un cassetto un foglio di carta robusta, formato A3, osservò a lungo il suo improvvisato modello, infine si alzò e si avvicinò: “Perché questa giacca blu? La invecchia. E il nodo alla cravatta, così stretto, non lo soffoca?”Non aspettando alcun commento, aprì una delle due porte e uscì, pochi secondi dopo, con una giacca di lana beige di tweed.
“Provi questa: era del mio ex marito: un farabutto, ma sapeva come vestirsi”.
Terenzio Belli la indossò.
“Molto meglio. Decisamente meglio. Così è più giovane e simpatico”, commentò lei, visibilmente soddisfatta. “Certo”, precisò la signora “ora i revers vanno più stretti e quelle dannate tasche applicate non le ho mai potute sopportare. Le è appena larga di spalle, ma ci penso io ad aggiustargliela nel ritratto. Lei permette?”, proseguì, e senza attendere alcun assenso gli sciolse il nodo della cravatta.
“Respiri! Respiri! Respirare è vivere, respirare è amare”.
Terenzio Belli scelse la posizione che gli sembrava più consona, con la schiena appoggiata alla sedia e le mani incrociate sul grembo.
“Bene, cominciamo. Si muova il meno possibile”. Lei prese il foglio, lo fissò con una clip su un cartone robusto, accavallò le gambe e, col cartone inclinato sulle ginocchia, iniziò.
Lui stette più immobile che poté. La signora sceglieva le matite colorate dai barattoli e lui ammirò con quanta destrezza e rapidità lei pescasse un colore tra i forse cento barattoli che occupavano l’intero piano del tavolo.
Dopo un’ora o poco più, lei si alzò dalla sedia e disse:“Fatto!”
E glielo consegnò. Lui non poté trattenere un largo sorriso, quando lo vide: era proprio lui, lui vero, lui in persona, lui unico tra più di sette miliardi di persone. Non s’accorse, poiché siamo propensi a nasconderci le nostre inesattezze, che la signora gli aveva impresso nello sguardo il crepuscolo d’una sfumata indeterminatezza che, almeno da otto anni a questa parte, lo accompagnava ovunque.
“È bellissimo”, balbettò Terenzio Belli, “è bellissimo”, ripeté piano, come a magnificarlo a sé stesso.
“Mi scusi”, disse la signora riprendendo il foglio. Lo cosparse di uno spray fissativo e glielo restituì. Indicò la sua firma, in fondo a destra, sbarazzina e veloce: Isolina Tamburini.
“Gradisce un caffè, un amaro?” Erano quasi le quattro e cominciava a far scuro.
“Grazie, un’altra volta. Conserverò il suo ritratto tra le cose più care”. Lei gli dette un’ultima occhiata:
“Guardi come le dona il beige”.
Lui lo arrotolò accuratamente, col rispetto che si deve alle cose più preziose e, con una attenzione meticolosa, che qualcuno avrebbe potuto intendere ossessiva, lo pose nella cartella.
Si salutarono e lei, sollevandosi sulla punta dei piedi, osò un leggerissimo bacio sulla guancia che lui, dannata timidezza, non s’azzardò a ricambiare.
“Si riguardi, signor Terenzio”. Isolina lo congedò con un gesto della mano e tentennò un istante sulla porta, prima di chiuderla.
Terenzio Belli si trovò in strada nel momento in cui un uomo, irrimediabilmente trasandato nel vestire, la attraversava, seguito da un cane, una specie di pastore tedesco figlio di cento madri, con tre zampe: chissà, un incidente, la nebbia assassina… chissà.
“Zampanò, datti una mossa, attraversa in fretta, che se passa qualcuno ti mette sotto”.
Il padrone lo aspettò dall’altra parte e Zampanò, sghimbescio, lo raggiunse. L’uomo notò Terenzio Belli, impettito nel loden grigio, la sciarpa sciolta sul collo e la camicia bianca. Solo il nodo della cravatta, sciolto, tradiva un riflesso meno ufficiale, per non dire, meno imbaccalito. Quando Terenzio Belli fu sufficiente vicino all’uomo, questi osservò:
“Lei non è di queste parti”.
“No”, ed estrasse il biglietto da visita: Terenzio Belli – Viaggiatore -. L’uomo allontanò di un bel po’ dagli occhi il biglietto, sia perché era presbite e sia perché era quasi buio. Lesse e commentò:
“Chissà quanto mondo s’è goduto” e proseguì: “ Zampanò, ti presento un uomo che ne ha da raccontarne, di cose. Mi presento anch’io, se mi permette: Gedeone Gedeoni, nullafacente, nullatenente e padrone nemmeno di un cane, perché Zampanò, mi creda, è lui che comanda. Strinse la mano di Terenzio Belli con forza, e il nostro non poté non notare le dita lunghe, aristocratiche, e le unghie curate.
“Mi faccia pensare… Terenzio… Terenzio… forse avevo uno zio che si chiamava così. O forse no. Dove sta andando, se mi posso permettere?”
“Laggiù”, e indicò il viale.
“Nel viale ci andrà più tardi”, asserì deciso Gedeone, e poi, rivolto al cane: “Zampanò, abbiamo un nuovo amico: Terenzio”.
“Andiamo a casa mia, è qua a due passi”, concluse risoluto Gedeone. La frase suonava come un ordine imprescindibile.
Superate le due case affacciate sulla strada, fu subito sterpaglia, segnata da un sentierino, a mala pena abbozzato, che portava dritto dritto, superato un centinaio di metri tormentato dai rovi, ad una casettina tenuta insieme da assi di legno scolorito, con un tetto di lamiera ondulata. Era interamente circondata da girandole: molte in plastica, di quelle che si comprano alla fiera per far contenti i bimbi, altre di balsa, altre ancora di lamierino leggero che imitavano forme lontanamente animali. Tante erano piantate a terra, e tante altre inchiodate in qualche modo alle pareti della casa. Nell’aria mossa di novembre tutte giravano, creando un sottofondo come di milioni di foglie scosse dal vento.
“Mi tengono compagnia”, spiegò Gedeone indicandole con un ampio movimento rotatorio del braccio, quasi a volerle abbracciare tutte, e immediatamente precisò, rivolto al cane: “Non certo come te, Zampanò, nessuno al mondo può essere come te”. Gli si avvicinò e lo accarezzò con amore sulla testa. Gedeone aprì la porta, che era senza chiave e, con un chiaro invito della mano, disse:
“Prego, Terenzio, entri. Anzi, entra, Terenzio.”
Curvandosi, perché la porta era molto più bassa del normale, li accolse, se ci è concesso usare questo termine, una stanza della grandezza della casa, stipata di giornali vecchi, in parte accatastati in terra ed altri impilati su mensole improvvisate, targhe d’automobili vecchie, mezzo arrugginite attaccate ovunque, mischiate a stampe di riproduzioni di animali fantastici, ripresi da bestiari medioevali, e altre immagini che descrivevano le macchine inventate di Leonardo, virate a seppia.
All’interno l’arredamento era composto da due sedie, una di legno e una di plastica, che un tempo doveva essere bianca, e, tra di esse, un tavolo metallico verde, da giardino. Poi un letto sfatto, e vicino una coperta, per terra, (la cuccia di Zampanò, pensò Terenzio Belli, vista la coltre di peli che la ricopriva), e un tavolino, appoggiato alla parete, su cui stava una cucinetta da camping a due fuochi, con accanto la bombola. Il pavimento era ricoperto da pezzi scompagnati di linoleum, di vari motivi e colori. Il resto dell’arredamento: alcuni mobilacci da nulla, un frigoriferino e una stufetta a legna. Tre lampadine pendevano dal soffitto. La polvere stagnava, stratificata, ovunque. Un piccione stava appisolato sullo schienale della sedia di legno. Appena vide entrare i due uomini si scrollò le penne e con calma se ne volò via, fuori dalla porta.
“È Cristoforo Colombo”, disse Gedeone, “sta qua tutto il giorno e quando rientro lui se ne va. Bella riconoscenza! A modo suo è uno di famiglia. Mi dispiacerebbe non rivederlo più”.
“Se cerchi la porta del cesso, Terenzio, è la stessa da cui siamo entrati: Il mio cesso è il mondo. La merda non è un rifiuto, ma un’opportunità. Pensa agli uccelli che la piluccano, o agli insetti coprofagi che se ne cibano, o all’erba più verde se ci prospera sopra. La merda è cibo e vita”.
“Vuoi un caffè o un bicchiere di vino?”, invitò Gedeone.
“Grazie, un caffè.”
Gedeone prese da una cassetta di frutta, vuota, agganciata in verticale sopra la cucinetta, un barattolo di caffè (il più costoso in commercio, constatò Terenzio Belli) e s’accinse a prepararlo in una napoletana monodose.
“E tu?”
“Preferisco il vino”. Frugò in una cassa e tirò fuori una bottiglia di Sassicaia. “È della Tenuta San Guido. Un bouquet supremo. È un peccato che tu preferisca il caffè”.
Da un carrello della spesa scelse un bicchiere, fra i tanti che ne ricoprivano il fondo. “Eccolo, quello giusto: stelo lungo, cristallo sottile, leggermente chiuso in alto, sul calice. Qua dentro vive l’universo unico del Sassicaia”.
Terenzio Belli era impressionato: non conosceva quasi nulla di vini, ma sapeva che il Sassicaia era molto costoso.
Osservò Gedeone Gedeoni che riempiva a metà il bicchiere: seppure di trasandatezza unica, Gedeone era rasato di fresco e i capelli lunghi e lisci sulle spalle, lavati e vaporosi. Le mani le aveva già notate: curatissime. Come se Gedeone avesse indovinato i pensieri dell’ospite, precisò:
“A cinquanta metri da qua ci corre un torrentello, isolato e discreto, nascosto nel bosco: ogni mattina, estate o inverno, ci faccio toilette”.
Terenzio Belli si stupì della parlata impeccabile, quasi ricercata di Gedeone, che indovinò ancora i suoi pensieri e disse:
“Io ingegnere!? Mi vedi fare l’ingegnere? Tutto il giorno a calcolare e misurare. E la cravatta e la giacca e le riunioni e gli orari… Ho piantato tutto. Stiamo meglio qua, vero Zampanò? Chi è più felice di noi?”
Zampanò gli venne vicino per farsi accarezzare e intanto scodinzolava: mancando della zampa di dietro, muoveva la coda e nel mentre dimenava tutto il corpo, cercando le coccole di papà.
“Chi invece è un vero sporcaccione sei tu. Non ti vergogni?” Era vero: Zampanò era tragicamente puzzolente, ma si capiva che era un cane felice, anche se coperto dalla merda di cinghiale nella quale adorava svoltolarsi e con il pelo avvolto dai sedimenti di mille sudori.
“Sai”, continuò Gedeone Gedeoni, “ho comprato ettolitri di shampoo: alla verbena, alla vaniglia, al cazzo di non so. E tutti dicevano, sull’etichetta ‘per i vostri amici a quattro zampe’. Forse è per questo che a Zampanò non piacciono: lui di zampe ne ha solo tre”.
‘Di che colore sarà, una volta lavato?’, pensò Terenzio Belli sorseggiando il caffè, che trovò ottimo e ‘struggente’.
‘Struggente’, perché lo catturò una malinconia imprevista che credeva di aver occultato da infiniti anni. Il gusto di quel caffè lo invase e lo precipitò nel ricordo di sua madre che gliene preparava una tazza, calda e cremosa, giusto prima che lui, distratto studente di giurisprudenza, si recasse alla facoltà. Era quello l’aroma inconfondibile d’una nostalgia che credeva perduta e che ora, imperiosa, se ne approdava là, tra la polvere, un cane a tre zampe e un uomo, forse meraviglioso o forse disperato.
“E ora la pappa per il mio amore”
Gedeone Gedeoni estrasse fuori dalla cassetta di frutta appesa al muro una confezione di riso Carnaroli della marca migliore sul mercato, aprì il frigoriferino e prese un incoltino di carta oleata. Aperto, Terenzio Belli notò quattro filetti. Gedeone ne prese due e intanto accendeva il fuoco per il riso.
“Per il mio amico Zampanò solo la roba migliore”, disse rivolto al cane, anche se in verità stava parlando all’ospite.
“Potrei avere ancora del caffè? È speciale”. Poi buttò là una frase, cercando col tono della voce di renderla più inoffensiva possibile:
“Ma tu… la tua vita… la tua casa…” In effetti non sapeva come dirlo, e s’impaperò.
“Vuoi dire che non me la passo bene? A volte mi sento solo. Allora leggo e sento di appartenere al mondo. Aprì uno stipetto sbertucciato, pieno zeppo di riviste. Terenzio Belli intravide ‘Nature’ e ‘National Geographic’ in inglese.
“Ti faccio vedere una cosa”. Gedeone s’accucciò e tirò fuori da sotto il letto una sgangherata valigia polverosa. L’aprì: era traboccante di soldi, spiegazzati, accartocciati, avvoltolati, a rotoli, tutti accatastati alla rinfusa. Tanti, tantissimi soldi.
“E se te li rubano?”, osservò preoccupato Terenzio Belli.
“Chi? Tu? Nessuno sa che io ho tanti soldi, e tu hai la faccia buona, una faccia che non tradisce. Io, tu e Zampanò da adesso siamo fratelli in questo segreto”.
“Non m’importano una sega, tutti ‘sti soldi, ma non si sa mai. E poi come potrei godermi il Sassicaia, il Brunello e il Barolo? E, soprattutto, come farebbe Zampanò senza il Carnaroli e i filetti di prima qualità?”
Terenzio Belli si guardò intorno: miseria, ragnatele, polvere, sfasciume dovunque.
Poi guardò Gedeone Gedeoni e il suo cane Zampanò.
E sorrise.
Prima di salutarsi, Gedeone prese una pila: “È tua. Senza, ti perderesti”.
Si abbracciarono.
Terenzio Belli uscì dalla casa e fu piacevolmente investito dalla musica delle girandole: milioni di foglie al vento.
S’inoltrò lungo il sentiero.
La pila fu fondamentale.
Raggiunta la strada, notò, dall’altra parte, un locale pubblico illuminato che, immaginò, aprisse solo la sera, perché prima non ci aveva fatto caso. Una pacchiana, sgargiante insegna al neon, intermittente, diceva: NASHVILLE TONIGHT. Di là usciva una musica che si spandeva tra le poche case. Tre scintillanti automobili americane di anni passati da un pezzo erano posteggiate fuori. Incuriosito, entrò.
Venne immediatamente invaso dal fumo azzurrognolo delle sigarette, che stagnava in tutto il locale. Di fronte, quasi appena entrati, si stendeva per una diecina di metri un largo bancone di legno su cui erano montate almeno una quindicina di birre alla spina, quasi tutte americane. Dietro al bancone, davanti a uno specchio a tutta parete, erano disposte, su scaffali di vetro, le bottiglie contenenti l’alcol, pensò, di tutto il mondo.
Alla sinistra del bancone, a ridosso della parete, coperta da pubblicità di birre stampata su placche metalliche in parte corrose dal tempo, su un palco ricoperto di moquette rosa shocking, una ragazza cantava al microfono una ballata country, accompagnata da tre chitarre, un banjo, un’armonica e una batteria. Terenzio Belli, per quel poco d’inglese scolastico che ricordava, intuì che la canzone parlava di tradimenti e abbandoni. Sotto il palco, forse più di cento persone, donne e uomini, seduti a cavalcioni sulle sedie disposte a semicerchio, con l’imprescindibile bicchiere appoggiato a terra, seguivano ad alta voce le parole della canzone, che conoscevano a memoria, battendo a ritmo le mani e i piedi. Ondeggiavano all’unisono, accompagnandone la melodia. Tutti e tutte, o quasi, indossavano cappelli da cow-boy e giacche di pelle, spesso frangiate. Gli stivali erano d’obbligo: alcuni, osservò Terenzio Belli, erano guarniti di speroni in ottone lucidato, se non addirittura d’argento.
Si trovava catapultato a Nashville, Tennessee. E fuori dilagava la nebbia, con gli alberi nudi e Zampanò che ora stava sognando i cinghiali.
Si avvicinò con cautela al bancone, per ordinare qualcosa. Non certo un Chinotto San Pellegrino o una chicchera di caffè. Già pensava a un bicchiere d’acqua naturale, ma il barista, con fare amichevole, però preciso disse, anzi, impose:
“Whisky?” e prima che Terenzio Belli potesse accennare un no, gli fu messo in mano un bicchiere generoso di whisky.
“Ghiaccio?” domandò il barista.
“No grazie, lo preferisco così”. Accostò il bicchiere al naso e ne annusò il contenuto, spostando repentinamente la faccia con una smorfia, come se avesse inalato dell’ammoniaca.
Lo turbò l’immagine clandestina di un film che non l’avrebbe mai visto protagonista: fuggire alla chetichella da quello zoo di strampalata umanità. Fu prigioniero, invero, del suo prepotente, ammaestrato super-io, e desistette. Mentre il barista serviva altra gente e la ragazza ─ una bella voce, un po’ alla Joan Baez, per intenderci ─ intonava una nuova canzone country che, per il povero inglese che il nostro ricordava, raccontava ancora di tradimenti e abbandoni, versò il contenuto del bicchiere per terra. Il barista, voltatosi verso di lui, disse:
“Un altro, allora”, e già aveva riempito un secondo bicchiere che diede sorridente al nuovo arrivato. “È del migliore”, commentò il barista, “si vede che te ne intendi”.
Lui questa volta fu più furbo e versò il liquore piano piano, goccia a goccia, in un portacenere vuoto che stava lì vicino.
Era intento a questa operazione tutt’altro che facile che non s’avvide dell’uomo che si stava avvicinando: sui cinquanta, piccolo, cappello da cow-boy, gilet di cuoio, pantaloni in pelle e i pochi capelli rimasti, lunghi, raccolti in una coda di cavallo.
“Ehi, tu! Scommetto cento dollari che non sei di queste parti”. L’altro porse il biglietto da visita e l’uomo piccolo fece un fischio con le dita in bocca, per richiamare più persone possibili, e disse a voce alta per coprire l’invadenza della musica: “ E da quale continente arrivi, Terenzio Belli – Viaggiatore -?”
“Dalla Svezia”. La inventò lì per lì: la prima cosa che gli venne in mente. Notò una certa delusione nelle facce delle persone che, nel frattempo, si erano fatte attorno. Si pentì di quello che aveva appena detto: certo avrebbero preferito New Mexico, California o Michigan e, sopra ogni cosa, Tennessee.
L’uomo che aveva attaccato bottone si presentò: “Giovanni Diotallevi; per tutti, Little John.” Si scambiarono un cinque con la mano e Little John urlò, che tutti lo sentissero: “ Un very big WHOW! per il nostro nuovo ospite, Terenzio”.
Origliando ─ era un esperto, si sa ─ Terenzio Belli sentì che qualcuno stava già proponendo di chiamarlo Terence.
Il barista si avvicinò: “Vedo che ti è piaciuto. Ne vuoi un altro?” Con un gesto risoluto della mano, Terenzio fece capire che ne aveva abbastanza. Intanto la ragazza del complesso era impegnata nel ritornello di un’altra ballata country. ‘Dio mio, ancora tradimenti e abbandoni?’, capì a sufficienza Terenzio Belli.
“E dove vai di bello?”, domandò Little John.
“Stasera devo prendere un treno verso quella direzione”, indicandola col dito.
“No problem, Terenzio, ti accompagno io. A sette chilometri c’è la stazione che ti porta dove vuoi. E il treno, un fottuto locale, è alle 20 e 15: lo so perché lo prende spesso mia nipote. Trovati qui alle sette e mezza esatte”.
Si misero d’accordo e si scambiarono un altro cinque.
Il barista, nel mentre che Terenzio Belli stava pagando, gli disse: “Visto che ti piace tanto, l’ultimo te lo offre la casa”.
L’altro cortesemente rifiutò, inventò un appuntamento urgente e uscì, accompagnato dai fischi di arrivederci degli altri clienti. Respirò a più riprese per riprendersi e s’inoltrò verso il lungo viale.
Controllò l’ora: le sei e venti.
C’era tempo.
Rapace, il buio aveva preso possesso delle cose e lui, sul momento, si fermò smarrito, sul limitare del mare insondabile della nebbia. Solo dopo qualche istante si spinse in quel mondo claustrofobico, che giudicò inaspettatamente dominabile.
Dopo poco vide una sagoma confusa che mano a mano che s’avvicinava, disegnava i contorni irreali, in quel contesto e in quella sera, di un’Apecar a tre ruote, con i fanali accesi. Si avvicinò ancora e vide una donna di mezza età, intabarrata, con i guanti, con una sciarpa che le copriva mezzo viso e un buffo berretto a calottina, di lana turchese, calato sulla fronte, con un grande pon pon fucsia. Se ne stava curva su una sediolina pieghevole, illuminata dai fari, intenta a leggere ‘Pastorale americana’ di Philip Roth. Lei, quando lo vide, disse:
“Lei non è di queste parti”.
Terenzio Belli stava per prendere il biglietto da visita, ma vi rinunciò, pensando che sarebbe stata una sorta di baldanza inutile. Disse solo: “No, vengo da fuori”.
Nel cassone dell’Apecar c’erano sei cassette di arance. La signora distolse lo sguardo dal libro e disse sottovoce: “Gli altri li tengo dentro. Venga”.
Aprì la portiera e mostrò una diecina di libri, gettati là, sul sedile: alcuni volumi della Ricerca di Proust, Italo Calvino, Moravia, Marquez, Tolstoj…
Non passò a lui inosservato che la punta dell’indice del guanto destro era tagliata di netto e non resistette alla tentazione di conoscerne il motivo.
“Per voltare più in fretta le pagine.”
Glielo mostrò. Prese il libro che stava leggendo, lo chiuse e lo riaprì a caso, si inumidì l’indice con la lingua e in un batter d’occhio sfogliò la pagina sulla successiva.
Aprì di nuovo la portiera e disse: “Se sapessi tutto quello che sa questa gente”, ed indicò, allargando le braccia con gesto sovrano i libri sparpagliati sul sedile, “ora saprei dov’è mio marito: sarebbe con me, accanto a me, e mia figlia non sarebbe a Londra, a fare non so che. I figli, caro signore, si fanno e si perdono. Io adesso vendo arance, in primavera pesche, in estate fragole e angurie e nel primo autunno mele e qualche fico. E mi creda”, proseguì, “in questa stagione e con questo tempo si vende poco, per non dire nulla”.
La nebbia ricama storie e disturba destini. Un giorno sparisce, ma che ne è delle storie e dei destini disassati lasciati per strada? La signora delle arance è la storia di una donna che desidera la vita in un altrove, senza il buio imperdonabile di un avvolgente sipario bianco.
Così stava pensando Terenzio Belli, quando sentì avvicinarsi piano, come a bucare faticosamente l’oscurità, il suono di una banda, che lentamente, e infine li raggiunse.
I suonatori marciavano in fila per tre, impettiti nelle eleganti divise azzurre guarnite di alamari dorati. Stavano eseguendo, a marcetta, un motivo degli anni ’30: ‘Se potessi avere mille lire al mese’. La banda li superò. Chiudeva l’esiguo plotone una bambina, con la sua bella divisina azzurra e oro la quale, spalle rivolte ai suonatori, lanciava in aria coriandoli a un invisibile pubblico. L’estasi di quell’apparizione si dissolse nella nebbia. Da ultima sparì, nell’evanescenza della nube di latte, la bambina. Restò qualche coriandolo, in equilibrio di un refolo esangue.
E sparirono anch’essi.
Infine, sfocata e inafferrabile, sfumò la melodia: ‘Se potessi avere mille lire al mese…’
‘Come un treno dentro una galleria’, pensò Terenzio Belli.
Restò muto per un tempo infinito, incantato dall’intensità di quella visione, poi, ripresosi, chiese alla signora delle arance: “Cos’è? Una festa?”
“È la banda del paese che fa le prove. Di solito capita il mercoledì, o il venerdì. O quando vogliono loro… quando ci sono tutti”.
“Posso restare ancora un poco qui con lei?”, disse rivolto alla signora.
“Quanto vuole, torno a casa alle nove”, gli rispose, aggiustandosi meglio sulla fronte il buffo berretto col pon pon.
Lui rimase lì per molti minuti, guardò, anzi, ammirò la signora che leggeva Philip Roth, e la salutò, augurandole buona fortuna.
Lei si alzò per stringergli la mano e notò che un coriandolo s’era posato sul loden:
“È rosso: dicono che porti fortuna. Lo lasci lì, deciderà lui quando cadere”.
Sulla via del ritorno, Terenzio Belli fece una cosa che mai avrebbe osato fare prima di quella sera. Prese tutti i biglietti da visita che portava con sé e li gettò in aria, con vigore, più in alto possibile. Loro scesero e si depositarono a terra: tanti rettangolini chiari sul nero dell’asfalto.
Erano i coriandoli di Terenzio Belli.
Arrivò puntuale all’appuntamento, al NASHVILLE TONIGHT. Little John lo aspettava appoggiato al cofano della macchina. Indossava guanti da automobilista. L’omino controllò l’orologio e commentò:
“OK, Terenzio: puntuale come la morte. Si capisce subito: uno vestito come te è uno che guarda di continuo l’ora”.
Salirono su una macchina americana. ‘Smisurata’, pensò Terenzio Belli.
“È una Studebaker Commander del ‘55”, precisò orgoglioso Little John, “consuma un pozzo, ma è una bomba. Tieniti forte, amico, a noi Indianapolis ci fa una pippa.”
Partirono. Little John incollò il piede sull’acceleratore e lo tenne inchiodato là, attaccato, schivando persone, passando col rosso, mettendo sotto un povero gatto. “Tanto ce ne sono così tanti in giro”, commentò, sfiorando le macchine che si lasciava dietro. Arrivarono in anticipo.
“Visto, fratello, hai tutto il tempo di fare il biglietto e berti un altro whisky”.
Terenzio Belli scese dalla macchina, pallido. Si guardò le mani: tremavano. Ringraziò e disse: “A proposito, dov’ero? Dove sono stato tutto oggi?”
“Treterrazze. Really cute, no? Scritto tutto attaccato”, precisò Little John.
Si salutarono con una pacca sulla spalla, che a Terenzio Belli fece male.
“Al destino, amico”, si commiatò Little John che saltò in macchina e sgommò con una brutalità che fece voltare tutti: ‘chi è quell’idiota?’ L’idiota era ormai oltre la curva.
Il nostro ebbe il tempo di fare il biglietto e di gustarsi un Chinotto San Pellegrino con calma e, con calma, salire sul treno.
Dondolato dal vagone tentò di assopirsi. Non riuscendoci, provò a leggere il libro, nonostante l’intricarsi d’immagini, situazioni e colori, che finirono con lo scombinargli la concentrazione. Rinunciò e rimise il libro nella cartella.
Una signora grassa, seduta di fronte, avvolta in un piumino nero che le conferiva un aspetto vagamente cetaceo, si rivolse a lui con la più stupida delle domande: “Che lavoro fa, di bello?”
Terenzio Belli s’apprestò a fare quello che aveva fatto migliaia di volte: cercò un suo biglietto da visita e si ricordò di averli lanciati nella nebbia. Allora disse, perentorio:
“Mi scusi, signora, sto pensando ad una relazione che devo tenere domani ai miei studenti, e sono molto indietro.”
“Scusi lei, professore”, disse la donna, che sprofondò, contrita, ancor più nel piumino nero, stavolta facendola assomigliare a un enorme pinguino. Lui finse di pensare a chi sa che, ma la verità è che rivide Treterrazze, e la vide limpida come una polla d’acqua sorgiva, viva e disordinata: uno spruzzo nascente.
Dopo un po’ gli venne voglia di riguardare il ritratto. Delicatamente lo prese dalla borsa e con garbo lo srotolò. Lo osservò per qualche tempo, incurante che gli si stava stampando sul viso un accenno di sorriso. Poi, si sarebbe potuto dire con educazione, lo riarrotolò e lo depose nella cartella. La sensibilità con la quale lo fece fu la stessa che si riserva quando si accarezza il viso di un neonato.
Arrivò alla stazione. Prese la bici e avvertì, immediato, l’assalto del freddo sul viso e sul corpo che, né loden né sciarpa riuscirono a sedare.
A casa cenò con un po’ di quello che Tata Luigia gli aveva preparato con dedizione e, stanco, andò a dormire, volutamente senza scegliere sulla carta geografica la località da visitare l’indomani.
Non puntò la sveglia.
Aprì gli occhi verso le nove.
In pigiama raggiunse lo studio.
Si sedette alla scrivania, imbambolato.
Svuotato.
Passò più di mezz’ora e l’unica immagine che gli attraversò la mente fu quella di aver vissuto in un’eterna gita fuori porta, un lunedì dell’Angelo senza principio né fine: otto anni di lunedì dell’Angelo: tutti i santi giorni.
Guardò i biglietti dei treni presi, e quelli dei pullman per raggiungere i luoghi più sperduti, tutti maniacalmente allineati, sul piano d’ebano della scrivania, in mazzetti da cento, tenuti assieme, ognuno, da un elastico. Li contò: stava quasi esaurendo il ventiseiesimo mazzetto.
Carta.
Si spaventò. Terenzio Belli ebbe paura, una paura che solo il rollio di un treno di pendolari sarebbe riuscito a placare. E lui, come un bimbetto nella culla, si sarebbe lasciato condurre in una piazza o in una pizzeria, o davanti a un chiosco dove vendevano Chinotti San Pellegrino.
Rituale rassicurante, una sorta d’iniziazione sciamanica quotidiana, che l’aveva condotto, in otto anni, non certo ad un qualche superamento di qualcosa, ma al caldo delle coperte, giunta la notte ed ottemperato al rito.
Pensò che Zampanò, strambante sulle tre zampe, aveva capito più di lui.
Tentò, come a difendersi, di rammentare le cose belle che, nel suo vagabondare, gli si erano offerte: quella chiesetta seicentesca, le confidenze rubate a una ragazza e un ragazzo dopo una notte d’amore, i tortellini sublimi in una trattoria perduta che non ricordava dove, l’odore del mare dopo una burrasca, la paurosa felicità d’essersi perso nel fitto di un bosco…
Guardò nuovamente i quasi ventisei mazzetti di biglietti e pensò che quel tutto era inutile, nonostante la chiesetta del ‘600, i tortellini sublimi e altre cose che con un minimo sforzo di memoria avrebbe potuto ricordare, come i tavoli di formica con tanti vecchi che giocavano a carte, in un bar dove non vendevano Chinotti San Pellegrino. Se avesse potuto stilare un inventario, avrebbe contato 2456 città, paesi e borghi visitati, 4858 Chinotti San Pellegrino bevuti, 2568 pasti consumati in ristoranti, trattorie o pizzerie, 7857 discussioni di coppie, giovani o meno, innamorate o incattivite, un numero spropositato di discorsi rubati a vecchi, uomini, donne e perfino bambini, se si appostava all’uscita di un asilo.
Un ‘piccolo’ particolare, che necessariamente va ricordato: Terenzio Belli era nato una mattina di sole nel febbraio di quarantadue anni addietro. Quello stesso Terenzio Belli che per la prima volta, passati quarantadue anni, aveva parlato con una giovane donna, avvertendo, nel recesso più anchilosato di sé, una soavità scardinante.
Concluse sconsolato di sentirsi escluso dalla piacevolezza che accompagna le persone, come chiedere ‘per favore, vorrei tre carciofi’, oppure ‘possiamo rivederci?’
Si alzò dalla sedia per raggiungere il bagno, quando incrociò Tata Luigia.
“Tata Luigia, oggi non fare la spesa”.
Tata Luigia sbiancò ed assunse la stessa espressione che deve avere una persona nel precipitare dal diciottesimo piano. Lui se n’accorse e la rassicurò:
“Tranquilla, Tata Luigia, non ti licenzierò mai. Cosa farei senza di te?”
“Anch’io non so cosa farei senza di lei, signor Terenzio”, e gli occhi le si arrossarono.
Si preparò con particolare cura, quella mattina. Prese la cartella, la sciarpa e indossò il loden. Qualcosa di poco più che microscopico si staccò dal tessuto e si posò sul pavimento. Terenzio Belli lo raccolse: era il coriandolo rosso. Aveva resistito al viaggio allucinante con Little John, aveva resistito alle frenate del treno, e ancora sulla bici, di corsa verso casa ed ora, stanco, si era adagiato su una mattonella di marmo.
Pensò con nostalgia alla signora delle arance e alla sua vita sbilenca.
“Porta fortuna. Deciderà lui quando staccarsi”.
Ora sei a casa, pensò. Lo raccolse e lo posò in una minuscola scatolina di madreperla che teneva nello studio.
“Fatti una bella dormita”, sussurrò piano per non svegliarlo.
Uscì a piedi.
Prima andò dal corniciaio. Discussero a lungo sul tipo di legno e sul colore del passepartout. Consegnò il ritratto e si raccomandò:
“Il più presto possibile”.
Raggiunse il più elegante magazzino di tessuti della città e poi si recò dal suo sarto personale il quale, alla vista della stoffa, commentò stupito:
“Beige di lana tweed? E il suo blu preferito?”
“Ho deciso di cambiare”, tagliò corto Terenzio Belli. E aggiunse:
“Niente tasche applicate, mi raccomando. E i revers non troppo larghi, giusti, come vanno adesso”. Il sarto prese nota con una faccia strana.
“Le telefonerò per la prova, avvocato”.
“Grazie, e, per favore, cerchi di farlo il più presto possibile”.
Sulla strada attraversò le bancarelle del mercato.
“Tre carciofi, belli grandi”.
Rientrò in casa. Digitò su Google ‘ricette facili con i carciofi’. Lesse, scelse e finalmente si mise calmo.
Si sedette alla scrivania. Frugò in un cassetto ed estrasse un astuccio nero, raffinato e rigido. L’aprì: all’interno, su una fodera di velluto, c’era la sua Montblanc. La dovette lavare bene per togliere l’inchiostro che s’era seccato. Era dai tempi dell’università che non l’aveva più usata. Infine la caricò.
Prese una risma di carta intestata, intonsa nel cellophane. Scartò il primo foglio, che gli parve leggermente piegato. Il secondo era perfetto. Su una busta scrisse il nome del destinatario, seguito da c/o Bar Centrale, Treterrazze, la provincia e il codice postale.
Con la stilografica in mano e il foglio di carta, lesse l’intestazione: Terenzio Belli – Viaggiatore – . Vergò l’ultima parola con un tratto di penna.
Ci pensò un minuto o forse più, e timoroso iniziò: “Gentilissima Signorina Ondina…”