La sua carriera inizia come sceneggiatore, cosa l’ha spinta a passare dietro la macchina da presa?
Una serie di avvenimenti fortunosi. Mi trovavo bene a scrivere, stando da solo, in silenzio, in compagnia solo del rumore della macchina da scrivere. Quando mi capitava di andare sul set, la confusione mi colpiva negativamente: la gente che gridava, gli attori che discutevano. Per me, che sono una persona tendenzialmente solitaria, non era una situazione piacevole. Poi ho scritto “L’uccello dalle piume di cristallo”, che doveva essere girato da un regista inglese, avevamo già anche il produttore. Mi sono chiesto però perché non potevo farlo io: avendo fatto per molto tempo il critico cinematografico conoscevo bene il cinema, per girare dovevo soltanto fare lo sforzo di convivere con il caos del set. Mio padre, che faceva il produttore, mi sostenne, trovai un finanziatore, Goffredo Lombardo, e girai il film. La pellicola che realizzai però era diversa dagli altri polizieschi, dai film sul mistero, anche nelle modalità delle riprese, tanto che quando Lombardo vide quanto avevo girato mi chiese di ritirarmi, dicendo che avrebbe trovato un altro regista, e partì in vacanza. Io però decisi di andare avanti, dal momento che ero autore del soggetto e della sceneggiatura, facendomi anche forza del fatto che mio padre era co-produttore. Ultimai la pellicola, il film uscì e fu un successo, anche negli Stati Uniti, dove rimase a lungo in testa alle classifiche.
Dario Argento è conosciuto come maestro del genere thriller e horror: da cosa nasce questa scelta di genere?
È del tutto casuale, agli inizi avevo scritto film diversi: western, di guerra, storie d’amore… Quando ho visto che “L’uccello dalle piume di cristallo” era riuscito bene e che era stato apprezzato, però, ho deciso che per un po’ avrei proseguito con opere simili.
Quali sono, se ce ne sono, i modelli ai quali si ispira?
Non so in particolare chi mi abbia ispirato. Da molti vengo definito “l’Hitchcock italiano” ma in realtà il mio stile è molto diverso dal suo, mi manca anche la sua ironia. Da ragazzo ho visto moltissimi film, quando sono andato a studiare a Parigi trascorrevo interi pomeriggi alla Cinémathèque, dove ne vedevo di ogni genere, dal muto alle pellicole americane degli anni ’40, fino alle opere della Nouvelle Vague. E quando ero in sala, oltre a seguire la storia, osservavo come si muoveva la macchina da presa, cercavo di capire perché facesse determinati movimenti, immaginavo che ci fosse una ragione precisa, quasi spirituale.
I suoi film hanno spaventato tante generazioni di spettatori: cosa pensa della paura?
È un’emozione come altre, come l’allegria. Solo che crea un brivido potente, arriva fino alle ossa e produce apprensione, inquietudine. Mi piace suscitare queste sensazioni, che di solito restano nascoste, sopite.
Nel suo passaggio dal thriller all’horror si colloca un film del tutto diverso, “Le cinque giornate”: cosa ha significato per lei girare un’opera di argomento storico?
In realtà non dovevo realizzarlo io, lo avevo scritto con altre persone ma non per dirigerlo. Quando però andavo a parlare con gli attori da coinvolgere, tutti mi chiedevano perché, dal momento che ne ero autore, non lo giravo anche. Così alla fine l’ho fatto, dandogli però un taglio scherzoso e sbeffeggiante.
È in fase di post produzione un suo vecchio progetto, “Occhiali neri”: che cosa l’ha spinta a tornare alla regia dopo aver tenuto questa sceneggiatura ferma per molto tempo?
In verità questo film dovevo girarlo un bel po’ di tempo fa, con la casa di produzione cinematografica di Vittorio Cecchi Gori: la sceneggiatura era ultimata e avevo iniziato i sopralluoghi per la scelta delle location delle riprese. Poi però è scoppiato lo scandalo che ha colpito il produttore (accusato di bancarotta fraudolenta, ndr). A quel punto ho messo da parte il progetto, che è rimasto per molto tempo nel cassetto. Poi mia figlia Asia stava cercando in casa mia un po’ di carte di famiglia per la stesura di un libro autobiografico e, scartabellando, ha trovato quella vecchia sceneggiatura. L’ha letta e le è piaciuta molto, quindi mi ha chiesto di girarlo. L’ho riletto anch’io, l’ho aggiornato e ho deciso di realizzare il film. Ora sono felice di averlo portato a termine, dovrebbe uscire in sala tra gennaio e febbraio del 2022.
È interessato al mondo della scienza e della ricerca?
Sì, mi interessano molto i progressi della ricerca. In particolare, sono attratto dalla psicologia e dalla psichiatria, e sono un grande ammiratore di Sigmund Freud. Tutti gli anni vado a Vienna, sia per la Viennale, il più importante festival cinematografico internazionale austriaco, sia per rivedere la casa museo dove Freud ha vissuto dal 1891 al 1938. Mi piace rileggere i suoi scritti, vedere i filmati che lo mostrano con il suo cane, le foto con i suoi allievi, tra i quali Carl Gustav Jung, i documenti che ricordano la sua fuga a Londra dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Lo amo perché ha cambiato il modo di raccontare: in letteratura, al cinema, nella pittura. Ha rivelato la profondità dell’animo umano che altri prima di lui avevano solo sfiorato. Ha ispirato tanti registi, da Luis Buñuel ad Alfred Hitchcock, basta pensare a “La donna che visse due volte” o “Io ti salverò”.
Come ha vissuto il periodo di pandemia e lockdown?
Sono stato come tutti chiuso in casa. Ma, a differenza di altre persone, per me non è stato un sacrificio. Io, come le ho detto, amo la solitudine. Ho avuto tempo per pensare, leggere, vedere tanti film su dvd.
Che progetti ha per il futuro?
Gli americani mi hanno proposto di realizzare i primi episodi di una serie televisiva, un giallo psicologico con risvolti sessuali. Non ho ancora deciso se accetterò, devo rileggere il materiale e adattarlo alla mia sensibilità. Dovrei iniziare a lavorarci attorno a marzo dell’anno prossimo.
Rita Bugliosi [Almanacco della Scienza N. 20, 27 ottobre 2021]