Thursday, April 25, 2024

CINQUE GIORNI NELLA LAGUNA VENEZIANA

Articolo di Marina Agostinacchio

Anche per un veneto non è sempre così scontato, come sembrerebbe, conoscere e avere visitato  le isole della Laguna veneta.
Quale paesaggio si apre ai nostri occhi, esplorando con i sensi angoli di bellezza primigenia!
Soggiornare agli Alberoni, una piccola località del Comune di Venezia, situata all’estremità meridionale del litorale del Lido, tra il mare, la bocca di porto e la laguna, dove regna ancora una natura  incontaminata e il paesaggio è caratterizzato da una pineta e dune sabbiose, che fanno parte di un’oasi protetta gestita dal  WWF Veneto e del Comune di Venezia…
E ancora, camminare in pomeriggi assolati fino a Malamocco, scoprire il mare limpido e la spiagge libere e spaziose del Lido…
Ecco cosa ci riserva un territorio anfibio, davvero unico, che ci parla della storia di un popolo  e, come canto di sirena, è richiamo attraverso il suono del mare.
Ma andiamo ad esplorare La Giudecca , un’isola, o meglio, un insieme di otto isole collegate tra loro, situata a sud del centro storico di Venezia.
L’origine del nome è controverso. Potrebbe derivare da Giudèca in dialetto veneziano, anticamente Zudèca e Zuèca,  (in veneziano antico “giudicato”), in riferimento a una sentenza, dell’inizio del IX secolo, di concessione, da parte della Repubblica veneziana, di terreni ad alcune famiglie, emessa per risarcirle dei danni  subiti durante l’esilio al quale erano state ingiustamente condannate.
Anticamente La Giudecca era conosciuta col nome di Spinalonga, forse per la sua forma allungata a lisca di pesce
Secondo alcuni invece, Giudecca  deriverebbe il nome dal primo quartiere ebraico presente sull’isola, notizia suffragata, secondo la tradizione orale, anche dall’ l’esistenza nell’isola di due sinagoghe, poi distrutte nel Settecento, oltre che dal presunto ritrovamento, non supportato da prove storiche accertate, alle Zitelle – la parte più orientale dell’isola della Giudecca, un ex complesso che ospitava le giovani fanciulle “zitelle” appunto, prive di dote – di una pietra con iscrizioni in ebraico.
Infine, “Giudecca” si riferirebbe all’attività dei conciatori di pelle che utilizzavano alcune sostanze vegetali ricavate da sterpami e arbusti. In Veneto e Trentino questi ultimi sono indicati con i vocaboli zuèc, zueccam, zuecchi .
Ma inoltriamoci  lungo la Fondamenta del Rio de S. Eufemia della Giudecca, e giungiamo al Campo dei Santi Cosma e Damiano, un complesso monastico, fondato nel 1481 da Marina Celsi, già badessa del monastero di Santa Eufemia dell’isola di  Mazzorbo, e terminato nel 1492.
Di particolare bellezza è il chiostro rinascimentale interno, con un elegante portico su tre lati.
Addentrandoci, scopriamo il laboratorio di Stefano Morasso, un raffinato maestro del vetro.
“Nell’laboratorio-officina” di Stefano, restiamo colpiti dai colori e dalle forme degli oggetti che crea secondo un gusto originale personale, sebbene fedele alla tradizione dei mastri vetrai di Murano.

Stefano Morasso

Ed ecco, un’esplosione di colori: dal giallo all’azzurro, dal celeste al rosso, dall’avorio al grigio al lilla, sfilare sotto ai nostri occhi attraverso forme eleganti, leggere, quasi frutto di apparizioni oniriche, in cui trasparenza e tocco di dita giocano a ingannarci sull’esistenza o la visione di Bicchieri, coppe, dalla forma lanceolata, dal gambo intarsiato, monili e gioielli.


Scopro anche un libro su un tavolo, “Il vetro a lume-Lampworking”- dal XX secolo ai nostri giorni – a cura di Cesare Toffolo, Ediz. Illustrata.
Questo libro, che rientra nel genere antichità e collezioni: ceramica e vetro, corredato di una galleria di manufatti di mastri vetrai, è una vera e propria documentazione di quanto prodotto in più di un secolo da essi ed omaggia al suo interno anche Stefano e la sua arte.
Stefano mi ha parlato del lavoro artistico che prende avvio dai genitori.
Scopro che la madre, Verilda De Polo,  a quattordici anni iniziò a lavorare “a lume” nella famosa fabbrica Brussa di Murano dove si producevano animaletti in vetro che, all’epoca, erano molto richiesti e venivano prodotti da centinaia di lavoranti giovani come lei nelle fabbriche dell’isola.
A diciott’anni la mamma incontra Mino Morasso, padre di Stefano, anche lui di Murano che all’epoca lavorava in una fabbrica che produceva lampadari.
I ragazzi erano stati assunti nelle fornaci dove la forza fisica era indispensabile per quel tipo di lavorazione.
A vent’anni i genitori di Stefano si sposano e partono per la Germania dove una compagnia del gas, per promuoverne l’uso nelle abitazioni, organizzava la visione della lavorazione a lume del vetro di Murano.
Successivamente i genitori tornarono a Murano ed aprirono una propria attività.
Stefano prosegue il suo racconto e mi dice:
“Ecco, io sono nato proprio con il vetro nelle vene e fin da piccolo ero affascinato dalle forme e dai colori che mio padre riusciva ad eseguire davanti ai miei occhi.
Dopo gli studi ho fatto un’esperienza in una fabbrica dove si producevano lampade, ma il tipo di lavoro non faceva per me, ho quindi lasciato, conservando comunque un buon ricordo dei miei maestri e dei colleghi e soprattutto arricchito da quella esperienza. Mi sono seduto accanto a mio padre con un mio cannello ed ho incominciato a fare quello che mi piaceva.
Da lui ho appreso ed ho condiviso l’esperienza in ore ed ore di lavoro fatto di tentativi, delusioni, ma anche di riuscita e di soddisfazione per le vittorie conseguite, perché il vetro è un materiale difficile da lavorare soprattutto quando lo sforzi con lavorazioni mai eseguite fino ad allora.
Negli anni 80 ebbi una intuizione e cioè quella di riprodurre il lavoro della fornace nel mio laboratorio con il solo ausilio del mio cannello e fu così che incominciai a soffiare ed a produrre oggetti a lume che fino ad allora erano prerogativa della grande industria.
A trent’anni ho conosciuto mia moglie Nicoletta e con lei ho aperto un negozio a Venezia, ho fatto un figlio e ho viaggiato per il Mondo.
Nel 2001 siamo partiti da Venezia per il Costa Rica dove siamo rimasti per cinque anni durante i quali abbiamo cercato di avvicinare chiunque alla bellezza del vetro di Murano.
Nel 2006 ci siamo spostati in Messico dove abbiamo aperto un negozio e dove abbiamo vissuto per altri cinque anni.
Siamo tornati in Italia nel 2011 e da allora ho aperto il mio studio alla Giudecca dove è possibile vedermi al lavoro soffiando calici o facendo perle o insegnando a mio figlio le mie tecniche di lavorazione.”

Ecco come si trasmettono arti e mestieri antichi ed ecco come, ogni generazione, apporta, modifica e rinnova una lavorazione millenaria come quella del vetro di Murano.
A questo punto, Stefano, si può soltanto vederlo al lavoro, nel suo regno magico, restare incantati dentro quel mondo di vetro soffiato!

Marina Agostinacchio
Marina Agostinacchio
Nel 1998 e nel 2007, Marina Agostinacchio è tra i vincitori del concorso nazionale di poesia “Premio Rabelais”. Nel 2006 è tra i finalisti del Premio “Tra Secchia e Panaro”. Nel 2002 ha ottenuto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesie Porticati, nel 2009 la raccolta Azzurro, il Melograno, nel 2012 Lo sguardo, la gioia, nel 2014 Tra ponte e selciato. Nel 2021, Marina Agostinacchio ha pubblicato i volumi bilingue di poesie "Trittico Berlinese", 2021, e "In the Islands of the Boughs", 2023.

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