Tuesday, April 23, 2024

Artisti e coloranti

A partire dai dipinti rupestri fino ai giorni nostri l’espressione artistica si è valsa di pigmenti e coloranti di provenienza sia naturale che sintetica. Se nella pittura preistorica si usavano soprattutto terre e cromie che spaziavano dal rosso al giallo, facilmente reperibili, si è poi fatto uso di altri materiali naturali ai quali si sono aggiunti, già in epoca antica, i primi sintetici quali la biacca e il blu egizio. “Per un lunghissimo arco temporale i colori utilizzati nella pittura hanno avuto un’origine naturale (lacche organiche o pigmenti di origine minerale disciolti in un legante) con solo pochi casi noti di pigmenti fabbricati sinteticamente e secondo ricette tramandate dalle fonti documentali”, spiega Francesco Paolo Romano dell’Istituto di scienze del patrimonio culturale (Ispc) del Cnr di Catania. “Tra l’altro, di alcuni di questi pigmenti sintetici si è perduta conoscenza nel corso storia, ad esempio del blu egizio, sintetizzato dagli Egizi oltre 3.000 anni fa e non più utilizzato dall’inizio del Medioevo, o del giallo di Napoli, sintetizzato e utilizzato da Egizi e Babilonesi e poi dimenticato, per essere alla fine riscoperto per un breve periodo tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600”.

Lo studio del colore su diversi manufatti e supporti, è da anni oggetto di diverse linee di ricerca all’interno del Cnr-Ispc ed è affrontato sia con tecniche non invasive operanti in situ sia integrate da tecniche di laboratorio.  In questo ambito opera il laboratorio mobile XRayLab del Cnr-Ispc catanese, per analizzare tecniche analitiche basate sull’uso di raggi X (piattaforma Molab-infrastruttura E-Rihs coordinata dal Cnr). Il laboratorio è principalmente specializzato nell’identificazione di pigmenti inorganici. “La presenza di pigmenti organici, ad esempio le lacche, viene riconosciuta spesso per assenza di segnale o, in forma indiretta, dalla presenza di alcuni leganti”, continua Romano. “Nel corso delle numerose campagne di misura di XRayLab su alcune opere rappresentative dell’arte del XV-XVII sec., i più comuni pigmenti rossastri, o di tonalità bruna,  riscontrati sono quelli basati sull’uso di ossidi di ferro (ocra o terre rosse ottenute da depositi naturali di argilla con processi di depurazione). La reperibilità nel mercato di tali materiali era semplice, di basso costo e la disponibilità ampia”.

Il loro uso nella pittura rinascimentale e barocca italiana è molto diffuso e si ritrova nella tavolozza dei colori dei più grandi maestri a partire da Leonardo, passando per la scuola di Raffaello, fino a Caravaggio. “Il famoso autoritratto di Leonardo da Vinci da vecchio, conservato alla Biblioteca Reale di Torino, è interamente disegnato con un pigmento rosso a base di ematite (ossido di ferro), come il laboratorio XRayLab ha potuto verificare durante le analisi condotte alla vigilia del 2019, contribuendo alla preparazione di alcuni eventi celebrativi per i 500 anni dalla morte”, evidenzia il ricercatore del Cnr-Ispc. Proprio con Caravaggio l’utilizzo di ocre rosse e brune assume una maggiore importanza. La sua tavolozza è solitamente ristretta a pochi pigmenti e l’artista, con una mescolanza di toni, riesce a realizzare le atmosfere in chiaroscuro che hanno reso unica la sua pittura. “Un esempio dell’utilizzo di ocre in Caravaggio è in particolare nelle ‘Sette opere di Misericordia’ presso il Pio Monte della Misericordia di Napoli, analizzato interamente dal nostro laboratorio”, precisa Romano.

Un pigmento rosso al quale gli artisti del Rinascimento italiano hanno dedicato particolare importanza è il cinabro o, nella versione sintetica, il rosso vermiglio. “Il cinabro veniva utilizzato spesso per dipingere i toni degli incarnati ma, data la sua preziosità, anche per rappresentare parti significative della composizione”, aggiunge il ricercatore. “Nel caso di Raffaello, è frequente ritrovare entrambi gli usi come, ad esempio, negli incarnati della Madonna del Divino Amore o nel ritratto del cardinale Alessandro Farnese, analizzati presso il Museo di Capodimonte a Napoli nell’ambito della preparazione di una mostra per l’anno di Raffaello, prevista per la II metà del 2021”.

Per i  toni blu e verdi in questo periodo si ricorre a un’ampia gamma di pigmenti, principalmente a base di rame, cobalto, ossidi di ferro (terre verdi) o di origine organica, come precisa Romano: “I pigmenti blu e verdi a base di rame di origine minerale sono l’azzurrite e la malachite, utilizzati sin dall’antichità. Al Museo di Capodimonte abbiamo riscontrato un uso esteso dell’azzurrite sulla Vergine della pala dell’Incoronazione di San Nicola da Tolentino di Raffaello. Più complessa è l’identificazione del prezioso blu oltremare, spesso utilizzato in velature sottili come, ad esempio, nella pittura di Botticelli”.  Un impiego particolare di pigmenti verdi si riscontra nelle ombreggiature dei volti: “Tale tecnica è stata da noi riscontrata in ritratti di Tintoretto e in Caravaggio. Tra l’altro Caravaggio, per il quale l’uso di un disegno preparatorio è ancora molto dibattuto, era solito tracciare disegni in corso d’opera con pigmenti a base di rame e manganese. Nel caso del rame, probabilmente un pigmento verde, ne abbiamo riscontrato tracce sempre nelle ‘Sette opere di Misericordia’ di Napoli”, sottolinea l’esperto.

Tra i vari pigmenti bianchi usati sin dall’antichità sono frequentemente rilevati quelli a base di calcio e piombo; il bianco di piombo (biacca) ha un ruolo focale in pittura, dal Rinascimento fino agli inizi dell’Ottocento, quando fu sostituito dal bianco di zinco. “Era utilizzato nelle preparazioni dei supporti pittorici (tavole e tele), miscelato anche con altri pigmenti, ad esempio le preparazioni cromatiche realizzate da Caravaggio con l’abbondante uso di terre a base di ossidi ferrosi. Le distribuzioni del piombo nelle analisi di ‘imaging’ condotte con la nostra strumentazione forniscono sempre informazioni notevoli dal punto di vista del processo creativo e spesso mettono in evidenza l’esistenza di pentimenti”, conclude Romano. “Per esempio, oltre alla Flagellazione di Caravaggio o ad alcuni dipinti di Raffaello analizzati a Capodimonte, abbiamo riscontrato interessanti pentimenti e cambi di intenzione in caravaggisti come De Ribera o Matthias Stomher (Museo del Castello Ursino di Catania). E ragionamenti simili possono essere fatti anche per i neri: quelli organici a base di carbone, molto frequenti, non vengono rivelati dalle tecniche analitiche di XRayLab; il nero d’ossa è invece rivelato dalla simultanea presenza di calcio e fosforo ed è ampiamente usato nella pittura a risparmio di Caravaggio”.

Si deve quindi giungere al XVIII sec. perchéla disponibilità dei materiali pittorici si ampli con pigmenti derivati da elementi chimici, per esempio il blu di Prussia, gialli e rossi di cadmio, verdi e gialli di cromo. Secondo Susanna Bracci del Cnr-Ispc di Sesto fiorentino, “quasi sempre la scoperta di questi materiali è derivata da ricerche che avevano altri obiettivi, come è successo nel caso del pigmento blu YInMn o blu Oregon, per caso scoperto all’Università dell’Oregon da uno studente e recentemente commercializzato. Nel corso del XX sec. la disponibilità di colori si amplia ulteriormente, grazie allo sviluppo della chimica organica, che fornirà anche nuovi leganti sintetici e quindi lo sviluppo di nuove tecniche artistiche”.

Per quanto riguarda la pietra antica, rimasta nell’immaginario collettivo ‘incolore’ fino a poco tempo fa, una ricerca è stata condotta ne Cnr di Sesto Fiorentino. “Importante è lo studio sulle tracce di colore nella statuaria antica. Infatti, sebbene sia noto che molte civiltà abbiano fatto uso della policromia su sculture e in generale su manufatti in pietra, oggi molti di questi colori sono andati perduti”, conclude la ricercatrice. “Per questo da diversi anni il nostro Istituto, in collaborazione con diverse istituzioni, tra cui l’Università di Firenze e la Pontificia commissione di archeologia sacra, ha iniziato lo studio archeometrico. A tal proposito, sono fondamentali le indagini non invasive in quanto, essendo il colore generalmente rimasto presente solo in tracce talora  non visibili a occhio nudo, il prelievo anche di un micro-campione implicherebbe la rimozione di tutto il materiale presente. Inoltre, spesso i manufatti hanno storie conservative difficili  – lunghi tempi di interramento, mantenimento in luoghi non adatti alla conservazione, puliture invasive specie in passato – che rendono lo studio particolarmente impegnativo”.

Luisa De Biagi [Da Almanacco della Scienza, N. 6 – 24 mar 2021]

redazione
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Tiziano Thomas Dossena, Leonardo Campanile, LindaAnn LoSchiavo, and Dominic Campanile

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